martedì 31 maggio 2011

JULIE RUIN: a genie, rather than a genius (and she wears a scrunchie)

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Julie Ruin non è altro che un progetto (inizialmente) solista di Kathleen Hanna.
Maestra di vita, figura di spicco del movimento Riot Grrrl sviluppatosi a cavallo degli anni Novanta in quella punta remota degli States che è lo stato di Washington (prego, guardare in alto a sinistra sulla cartina), Kathleen Hanna, ormai è un marchio di fabbrica: qualunque cosa tocchi, diventa oro; e non si fa per dire. Se credete sia raro di questi tempi (o di quelli del passato) trovare un’idealista credibile e ferocemente coerente con ciò che va professando, se credete che trovare un essere umano del genere sia impossibile, allora quando avrete conosciuto e ascoltato Kathleen – oltre a ricredervi – non potrete più farne a meno. Votata alla causa femminista fin da giovanissima (i suoi racconti circa la “scoperta” del femminismo a 9 anni sono leggendari), la Hanna è stata lead singer delle Bikini Kill dal 1990 al 1998 e poi fondatrice del terzetto Le Tigre, dal 1998 circa. Di mezzo a queste due esperienze, culto intoccabile per molte di noi, in mezzo dico, ci sta Julie Ruin.

lunedì 30 maggio 2011

L'amore non guasta

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Di solito prima di scrivere la recensione di un libro aspetto di far sedimentare la lettura, prendo le distanze dal sommovimento emotivo che mi ha causato, tento, per deformazione professionale, di guardarlo con occhio critico. Questa volta però faccio un'eccezione e voglio scrivere di getto, a meno di mezz'ora dalla fine dell'ultima riga, qualche parola e qualche impressione sul libro di Jonathan Coe L'amore non guasta.
Quando ho preso il volume fra le mani, pochi giorni fa in una libreria cittadina, e ho letto la quarta di copertina, ho pensato che non potevo esimermi dal comprarlo: il libro mi parlava, come se si fosse trattato di un incontro casuale fra due futuri amici.
Si direbbe che per Jonathan Coe il momento in cui si decide il destino di un individuo non sono i primi anni di vita, come suggerisce la psicoanalisi, ma quella sconfinata adolescenza e quel perpetuo fuoricorso che cominciano subito dopo aver lasciato il liceo e la famiglia e che corrispondono al vegetare dentro il calore debole ma protettivo di un'università di provincia, seguendo la trafila delle sessioni, degli esami, della laurea, di una tesi di dottorato sempre da scrivere e mai scritta.
Nel giro di pochissime pagine la prosa asciutta e ruvida di Coe mi ha conquistata. Il suo modo di puntare all'essenziale, senza fronzoli e senza digressioni- in sè molto lontano dallo stile che tendo a prediligere- mi ha tenuta incollata alla pagine in una lettura ingenua e "tutta d'un fiato" che non praticavo da diverso tempo. La storia è semplice, scarna se si vuole: un intreccio di differenti vicende biografiche che ruotano tutte attorno al personaggio principale, Robin, dottorando senza tesi, bloccato in uno stato di perpetuo blocco dello scrittore. Un inetto a vivere circondato da tanti altri inetti, alcuni dei quali palesi, come il compagno di discussioni accademiche Hugh o la studentessa indiana Aparna, altri falsamente "arrivati", trincerati nelle loro sicurezze famigliari e lavorative, incapaci di vedere oltre la loro limitante prospettiva, come Tom, ex compagno di studi del protagonista. Il romanzo si sviluppa su più piani e con un continuo scambio di narratori e punti di vista. Nel primo capitolo entriamo in punta di piedi nella vicenda attraverso gli occhi di Tom, per poi spostarci su Robin ed infine su Hugh e Aparna. Questi momenti di narrazione diretta sono intervallati da brevi racconti, scritti da Robin, che hanno con la vicenda principale un preciso e palese nesso biografico. Piccoli inserti perfettamente incastonati nel piano complessivo.
Eccezionale, per la profondità di analisi sul tema dell'amicizia, dell'amore e dei rapporti interpersonali, il racconto La lite degli innamorati, che ritengo avrebbe potuto essere uno splendido canovaccio per una narrazione autonoma.
Forse però la bellezza di questo romanzo risiede proprio nei mille spunti proposti, nel non indugiare troppo su una tematica, ma offrire piuttosto una variegata casistica grazie alla quale il lettore può farsi una sua idea sul tema chiave della vicenda che, a dispetto del titolo, non è unicamente l'amore o almeno non l'amore quale siamo soliti pensare comunemente.
Sono diverse infatti le situazioni di amore erotico, espresso o inespresso, nella storia. Tutte, inevitabilmente, tendono a finire male. Soltanto del matrimonio fra Tom e sua moglie non sappiamo nulla. Su questa donna, oggetto di tanto amore e motivo di tante riflessioni, l'autore ci dichiara di non voler spendere una sola parola. Eppure, ci stuzzica sadicamente, sarebbe stato molto interessante. Tornando all'amore, vediamo qui espresse tutte le difficoltà possibili di definizione di un rapporto: amici, innamorati, amanti, colleghi si mescolano e confondono in una reale impossibilità di definizione pregnante.
Di fondo resta un'aura cupa di solitudine e incomunicabilità che non abbandona mai il lettore. Forse l'esistenza è fatta unicamente di pensieri inespressi (come la tesi mai scritta di Robin), destinati a causare dolore e sofferenza, quando, a fronte di un dialogo onesto, potrebbero portare amore e vicinanza fra gl'individui. Le parole però non escono dalla bocca dei personaggi- per tutto il libro scivoliamo unicamente fra i loro pensieri- e quando lo fanno stridono causando incomprensioni e riaprendo ferite.
Forse per capire fino in fondo questo libro sarebbe davvero necessaria una lettura plurima, concentrata, attenta ai dettagli e magari annotata. Per ora mi limito a consigliarvelo, come un piccolo capolavoro d'introspezione collettiva delle mille sfumature legate all'umano sentire amore.

venerdì 27 maggio 2011

Avril Lavigne, una vecchia con lo sk8

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C'è una canzone dei Courteeners che dice “you're not 19 forever, pull yourself together”. Chiaramente, Avril Lavigne non ha l'ha mai sentita.

Nel suo nuovo video, “Smile”, la signora Lavigne ripropone il modello Barbie punkettina teenager, nonostante il suo ventottesimo compleanno (28 anni!) sia in arrivo, ed il periodo della ribellione adolescenziale sia passato da un bel po'.




Non che pretendessi una trasformazione tipo Madonna, o anche Britney Spears, ma Avril Lavigne è ancora identica a quando era minorenne e non aveva un divorzio alle spalle.

Calcolando che non è la prima né sarà l'ultima a non sapersi vestire in maniera age-appropriate, non dovrei trovarmi a criticare una trentenne con le bombolette spray e l'aria da bimbaminkia disperata. Saranno affari suoi, no? No.

Non sono stati i capelli verde evidenziatore, a sconvolgermi.

Ricordo benissimo quando Avril aveva l'espressione di un cucciolo di leone sperduto, la cravatta e cantava “Complicated”. Avevo dodici anni e, a posteriori, vorrei tagliarmi la lingua per averla considerata punk, ma sul momento rappresentava l'opposto di Britney Spears e mi piaceva.

I suoi testi esprimevano, in maniera stupida e semplicistica, la prospettiva di una ragazza un po' tagliata fuori dal giro cool. Non erano i Nirvana, ma per una che non aveva idea di chi fosse Kurt Cobain, Avril Lavigne bastava e avanzava.

Quando ha sfondato, la signora Lavigne aveva 17 anni. Nel 2011, ne ha 27 e dopo essere diventata una star, essersi sposata, aver mollato il marito e averne fatte di ogni, è ancora legata agli stessi temi, solo che affrontati in maniera peggiore.

2002 – Sk8r Boi: “Does your pretty face see what he's worth?”
2004 – My Happy Ending: “All this time you were pretending, so much for my happy ending”
2005 – He Wasn't: “He never made me feel like I was special, he isn't really what I'm looking for”

Fino a qui, tutto bene. Fondamentalmente si parla di ragazzi stronzi e di quanto lei si senta sola e sottovalutata, il che va anche bene.

2006 – Girlfriend:
1) “Hey! Hey! You! You! I don’t like your girlfriend! No way! No way! I think you need a new one Hey! Hey! You! You! I could be your girlfriend!”
2) “don’t pretend I think you know I’m damn precious, and hell yeah I’m the motherfucking princess”
3) “she's like so whatever, you can do so much better”

La prima volta che ho sentito “Girlfriend”, ho pensato che fosse una presa per il culo. Avril Lavigne, principessa dei giovani ribbelli, stava davvero cantando un inno al rubare il ragazzo ad un'altra?

2008 – The Best Damn Thing:
1) “Where are the hopes, where are the dreams, my Cinderella story scene?”
2) “Me, I'm a scene, I'm a drama queen I'm the best damn thing that your eyes have ever seen.”

Da “che tristezza, mi ha lasciato” a “perché cazzo non mi tratta come se fossi la regina del mondo?!”.

Nel frattempo, anche Avril è diventata grande, ma continua a cantare (beh, dai, chiamiamolo cantare) di storie da teenager.
Ma quando l'ascoltavo io e parlava di cose normali per una canzone pop, mentre ora i suoi testi sono peggio di quelli di Kesha. Solo che Kesha ha 22 anni. Non 28.

Il nuovo singolo dell'inizio, Smile, inizia con: “You know that I'm a crazy bitch, I do what I want when I feel like it. You know I wanna lose control.”
Al di là della pregevole citazione da Gossip Girl, Avril Lavigne si agita con una coroncina in testa fingendo di suonare la chitarra, “Cause you're fucking crazy rocknroll”, e dopo un po' si chiede “What did you put in my drink?”.

Il ritornello poi ci butta di nuovo nel mondo dello zucchero, ma questo non cambia la realtà delle cose: questa donna viene venduta come una ragazzina scapestrata a gente che, quando lo era davvero, portava il pannolone.

Solo che invece di dire che essere un po' sfigati va bene, consiglia di sbronzarsi fino a perdere la coscienza e poi “wake up with a new tattoo”.

Ne è passato di tempo, da quando non voleva darla al suo moroso in “Don't Tell Me”.

martedì 24 maggio 2011

How the 80s broke my heart. Cult series: Freaks and Geeks.

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Dopo avervi introdotto all’incantevole mondo di My so-called Life, questa settimana parliamo di un’altra serie cult a cui è stato riservato lo stesso tragico destino.

Scritta da Paul Feig e prodotta da Judd Apatow, Freaks and Geeks è stata trasmessa dalla Nbc tra il 1999 e il 2000. Non solo la serie si è aggiudicata un posto nei 100 migliori show televisivi di tutti i tempi del Time, ma anche l’Entertainment Weekly l’ha voluta premiare dandole il tredicesimo posto nella classifica delle migliori serie degli ultimi 25 anni.
Freaks and Geeks è ambientata negli anni ’80 e parla di due fratelli, Linsday e Sam, che frequentano la stessa scuola ma non appartenendo allo stesso gruppo sociale vivono esperienze completamente diverse.
Quello che per me distingue questa serie da My so-called life è l’attenzione data ai personaggi. Il primo telefilm è reso speciale dalle tematiche che affronta e da quell’atmosfera melanconica che accompagna Angela attraverso tutta la durata del suo viaggio. Mentre nella seconda, si valorizza il carattere di ogni singola persona e il modo di rapportarsi con quello che gli sta attorno. Il successo di questa serie è dovuto in gran parte al cast eccezionale di cui si vanta.

lunedì 23 maggio 2011

Ho fatto le elementari del libro "Cuore", VI puntata.

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Di grembiuli, d'indecenti minigonne per bambine di 8 anni e di altre amenità.


Quando mi sono iscritta in prima elementare, insieme alla cartella, al diario, ad astucci e quaderni vari, ci hanno fatto comprare anche il grembiule bianco.
Un ottimo modo per rendere i bambini tutti uguali ed impedirgli di focalizzare l'attenzione su cose vacue come la felpa firmata o i pantaloni alla moda; peccato che poi però c'erano gli zaini, le scarpe, la macchina con cui mamma e papà ti venivano a prendere, la bicicletta, il giocattolo e via discorrendo, a ricordarti la tua precisa collocazione sociale. E meno male direi, perché così ci si fa gli anticorpi per tempo, perché se poi arrivi nel crudele mondo delle medie con l'utopica convinzione che "siamo tutti uguali", finisce che ti scontri, nel modo più crudele possibile (quello delle cattiverie che solo i dodicenni-tredicenni possono dire e fare) con l'amara realtà.
Non siamo tutti uguali e dio ce ne scampi: i bambini hanno mille modi per ricordarselo continuamente l'un l'altro.
"La mia mamma mi ha comprato il camper di Barbie"
"Beh...la mia mi ha comprato la villa con piscina e stalla per il bianco destriero"
"..." silenzio e amarezza.
Insomma, il grembiule è stata una pessima idea, maturata con i migliori intenti, ma comunque pessima. Ogni mattina era uno strazio infilarselo sopra i vestiti, abbottonarlo per bene, controllare di non macchiarlo nel giro di pochi secondi (ma perché poi proprio bianco dico io?!), evitare di soffocare perché il colletto stringeva troppo. E poi anche i grembiuli erano diversi: tutti bianchi si, ma alcuni col colletto di pizzo, altri con le alette inamidate, altri con un ricamino tono su tono a motivi floreali. Altro che tutti uguali!
L'unico effetto che sortivano era quello di far imbufalire chi, come me, si sarebbe vestito volentieri da clown, abbinando in modo assurdo colori sgargianti in grado di provocare lesioni oculari ai malcapitati astanti. Desideravo ardentemente sfoggiare inguardabili felpe gialle con delfini blu sopra, magliette con il mio nome e sotto un gatto, pantaloni della tuta in acetato: il buon gusto non è mai stato il mio pezzo forte. Trovavo mortificante questa omologazione e, se non ero ancora in grado di portare avanti una critica strutturata al concetto di uniformità, provavo lo stesso una repulsione istintiva per quella divisa.
Ma con l'avvento della terza elementare ed il pensionamento dell'odiato grembiule, scoprii che non era affatto il peggiore dei mali: il vero male era la moralizzazione dell'abbigliamento fanciullesco.
Un giorno mia madre decise (che idea insana!) di mandarmi a scuola vestita con un maglioncino a righe stretto, una minigonna di tuta arancione, calze pesanti verdi. Come ormai avrete capito dai miei post precedenti, non ero la tipica bambina composta e tranquilla: arrivata in classe mi misi al posto seduta, come mio solito, un pò stravaccata, gambe rigorosamente aperte.
Il commento della maestra non si fece attendere e gridò alla scostumatezza. Come si faceva a vestire in quel modo una bambina che poi non sapeva comportarsi adeguatamente? La minigonna non era certo un capo di vestiario appropriato ad una classe scolastica! Ora, al di là di specifici casi davvero patologici, mi chiedo chi potrebbe, davanti a una bambina di otto anni in minigonna, per giunta molto "maschiaccio", provare qualcosa di diverso da un moto di divertimento. Potevo essere tenera, buffa, comica, ma di sicuro non provocante o scostumata. A ripensarci oggi mi viene da ridere, ma al tempo avevo preso la questione molto seriamente e non avevo più voluto indossare quella gonna per andare a scuola, pur di evitare un'ulteriore mortificazione.
Per non ricadere nello sconforto post traumatico, aggiungo la postilla "altre amenità" a chiusa di questa "favolosa" puntata di Ho fatto le elementari del libro "Cuore": esempi morali che traumatizzano i bambini.
Alcuni anni fa una mia compagna di scuola e cara amica mi disse che stava allestendo uno spettacolo, con i ragazzi della sua parrocchia, su una beata che aveva sacrificato la sua vita per non abortire il figlio che portava in grembo. Immediatamente mi scattò un flash in mente: quella donna la conoscevo bene e non per le lezioni di catechismo o per qualche informazione casuale pervenutami negli anni: era stata uno degli exempla di virtù presentati dalla mia maestra durante le scuole elementari. Gianna Beretta Molla, una donna non comune, pediatra, madre di tre figli, impegnata profondamente nella vita della comunità cattolica in cui viveva.

Durante la sua quarta gravidanza le riscontrano un fibroma all'utero e, pur sapendo che per evitare l'aborto avrebbe sacrificato la sua vita, decise lo stesso di portarla a termine. Morì pochi giorni dopo il parto, lasciando il marito e i quattro figli.
Ho ancora memoria del giorno in cui la sua vicenda ci venne raccontata dalla maestra e ricordo distintamente quello che, da bambina di seconda o terza elementare, pensai del fatto: era una cosa terribile. Una mamma aveva "abbandonato" deliberatamente i tre bambini che già aveva, li aveva privati della sua presenza in nome di qualcosa che, a me, al momento sfuggiva: una promessa di vita. A posteriori posso anche pensare che questa donna abbia fatto la scelta che in cuor suo riteneva più giusta, ma da qui a renderla un esempio da proporre a bambini che a malapena capiscono il senso della loro di esistenza ce ne passa. L'angoscia mi rimase addosso per giorni al pensiero di quello che potevano aver provato i figli rimasti, al pensiero del rancore che dovevano aver maturato per quella sorellina per la quale erano stati privati della madre. Queste cose mi sono servite, alla fine, per maturare una coscienza critica, per scrivere questo post, per dare il mio contributo di "flash back" alla mia amica ma, diciamocelo, si poteva tranquillamente evitare.

venerdì 20 maggio 2011

Parola di donna, un'ora al Salone del Libro.

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Il Salone internazionale del Libro di Torino non è mai stato un mio rito annuale. Certo non per la sua natura di luogo di consolidamento del potere e neanche per la noia del viaggio in tram. È proprio che il libro a casa mia non si usava. “Per i libri ci sono le biblioteche”, tuonava (ma benevolmente) mio padre, il cui unico affetto materiale si dirigeva (e si dirige tuttora) verso affarini dalle forme bizzarre, presumibilmente materiale elettrico di recupero, con cui sono sempre stata tentata di fabbricare orecchini. “E poi ti fanno anche pagare il biglietto! Per spendere altri soldi! Follia.” Certo che se vai alla fiera del libro per comprare e farti firmare l'ultimo libro di Mario Giordano (ma come fa ad avere quella pelle lì, mi chiedo, nivea) in coda allo stand Mondadori (la cui evitazione a questo punto è un atto politico e di buonsenso) sono dieci euro spesi molto, molto male. Ma poi il tempo, dico io. Il tuo preziosissimo tempo. S'intitola Sanguisughe. L'uomo di spalle si volta e dice: “Parla di giornalisti, immagino”. Il pubblico ride. La scena non si svolge in questo paese. Perché non farebbe ridere.

Uno degli incontri del Salone a cui ho assistito è pertanto di interesse in questa sede. Si tratta della presentazione del volume Parola di donna curato da Annarita Armeni, edito da Ponte Alle Grazie. Presenti la curatrice, Anna Bravo storica delle donne, Farian Sabahi giornalista e storica dell'Iran, Michela Murgia scrittrice (e, mi han detto, telefonista). Femministe, liberali o radicali che siano, di provenienza comunque istituzionale (se per istituzione intendiamo ciò che viene dall'università e dai quotidiani e dal mondo editoriale maggioritario) riunite per riparare insieme al “ratto delle parole”, definito tale da Armeni, operato ai danni dell'umanità femminile e per il quale sarebbe da pagare un riscatto, ciò che noi potremmo chiamare compromesso, così come per pagare il riscatto della bellezza si finisce sotto i ferri del chirurgo plastico. Le parole sono cambiate assecondando il cambiamento del mondo, il volume si propone dunque come vocabolario originale di cento lemmi scritti da altrettante eterogenee voci femminili, provenienti dai campi più disparati (seduta tra gli sparuti presenti c'è Susanna Camusso, autrice della voce Lavoro). Particolarmente interessante la chiave di lettura data alla voce Morte da parte di Murgia, la quale sottolinea un elemento mediatico che sarà anche sfuggito agli heavy (tv) viewers ma che a questo punto non può più sconvolgerci: è la mancanza di narratività della raffigurazione della morte della donna. La sua vita, piegata in effetti ad appendice funzionale di quella del compagno, che ne è il vero protagonista, non potrà che morire straziata dal dolore (sic), per quanto la morte possa essere dovuta a cause meramente organiche (l'esempio eclatante, come sottolineato dall'autrice stessa, è nella morte mediatica di Sandra Mondaini, di poco successiva a quella del consorte). Questa morte è, per l'autrice sarda, una rappresentazione invivibile, in effetti deprecabilmente radicata nel senso comune, una di quelle parole rapite che vanno restituite quanto prima e senza riscatto alcuno. [È in uscita il suo nuovo lavoro, Ave Mary, presentato altrove in questo enorme complesso espositivo. Quando esco dalla presentazione spero di essere in tempo per prendere una birra gratis presso uno stand di ragazzi cattivi (ometto volontariamente la casa editrice) ma il ragazzo in camicia di flanella ha finito tutto e mi consiglia qualche volume noir che mi limito a guardare sogghignando.] 
Sabahi, iraniana di seconda generazione in occidente, ci racconta che l'Islam non è un blocco monolitico e che la realtà del femminismo islamico è vitale e complessa. Mentre espone le sue disavventure yemenite (su come alle donne non sia concesso fare pressoché nulla senza la vigile presenza di un uomo) una signora seduta dietro di me prende a sbottare fastidiosamente. Mi guardo intorno e vedo solo vecchi. Non anziani. Vecchi. Incredibile come, anche in questo contesto, si sia trascinati e forzati al ragionamento sulla generazione. Le divisioni delle divisioni delle mie gerarchie mentali. Ho la sensazione di aver aggiunto comunque un tassello alla comprensione di come chi ci ha precedute – evidentemente sopravvivendo, nelle pieghe (o nelle piaghe) della società – ha interpretatogli ultimi anni e l'eventuale specificità del femminile, con le sue vecchie/nuove richieste.

P.s. Va detto che adesso faccio parte del club di coloro a cui la mensola svedese per i libri non basta più; e non solo, la mensola svedese è stata abilmente installata al di sopra del mio letto, dunque man mano che il carico culturale aumenta crescono le probabilità che io ne venga schiacciata e muoia – nel sonno o meno – sotto il suo gravoso contenuto e questo ha un potenziale metaforico che per ora si può tralasciare. In soldoni, questo è uno dei primi anni in cui io, da prodotto ottimale di una società tutto sommato scadente, ho cominciato ad interessarmi della totalità dei libri in commercio e di tutti i suoi generi.
Ok, a parte il thriller.
Ok, a parte i romanzi romanzati romantici romanzeschi. I romanzi-quelli.
Ok, a parte le 'storie rock'.
Ok, a parte i memoir delle persone pubbliche.
Ok, facciamo a parte i memoir in genere.
Insomma, tutti quei volumi con una pessima copertina.

giovedì 19 maggio 2011

Del sano Girl Power su ruote. Pollici su per il film "Whip it", diretto dalla Barrymore

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“Whip it”: non solo una canzone dei Devo datata 1980, ma anche il titolo di un film uscito nel più recente 2009, diretto da Drew Barrymore. Preciso che entrambi i “Whip it” sono in grado di esaltare a sangue, ma ciò di cui si va a discutere qui di seguito è il film, che in Italia è uscito direttamente in DVD e di cui s’è ingiustamente parlato pochissimo.

Opera prima della Barrymore regista, la pellicola (basata sul romanzo “Derby Girl” di Shauna Cross ) narra la storia di Bliss Cavendar (Ellen Page, già vista in “Juno”), una 17enne d’indole anticonformista, incapace di trovare la felicità in quel buco di città dove vive (la fittizia Bodeen, nello stato del Texas) e farsi capire dai genitori: una madre (il premio Oscar Marcia Gray Harden) che la vorrebbe reginetta di bellezza e che non fa altro che iscriverla a concorsi e a conciarla da perfetta mogliettina anni Cinquanta; un padre (Daniel Stern) che semplicemente ignora le insicurezze della figlia adolescente e tantomeno pare interessato a voler sostituire la consorte nell’educazione delle figlie. Bliss non è infatti figlia unica (non all’anagrafe, almeno): a (non) farle compagnia in casa è Shania, sorellina che non ha niente in comune con lei, ma pare bensì perfetta incarnazione degli ideali d’etichetta e bella presenza della madre.

mercoledì 18 maggio 2011

16 & Pregnant: Juno è dispersa, Kayla ha preso il suo posto

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"Ciao, sono Kayla! Ho 17 anni, vivo a Centreland in Alabama! Sono la tipica bellezza del Sud (si salvi chi può allora!!) ma solo perché sono molto femminile non vuol dire che non sia disposta a sporcarmi le mani! Infatto vado a cavallo e a caccia con il mio ragazzo J.R. (Tolkien). Io e lui siamo insieme da 6 mesi ma so già che è l’uomo della mai vita! Ma i miei giorni da spensierata bellezza del sud sono ormai contati perché sono… incinta.”
“16 & Pregnant” e il suo seguito, “Teen Mom”, sono due reality show relativamente recenti prodotti da MTV, che ha ritenuto che far vedere i nuovi migliori amici per sempre di Paris Hilton anno dopo anno fosse un tantino noioso. Le alte intelligenze a capo del network hanno quindi avuto la geniale idea di produrre una serie incentrata sulle gravidanze di teenager americane  sui 16-17 anni e sulle varie difficoltà che queste devono affrontare.
In questo caso specifico, parliamo di Kayla, esempio estremamente rappresentativo (estremamente rappresentativo = nella maggioranza dei casi, non in tutti) della gioventù che passa sotto le telecamere di MTV.

martedì 17 maggio 2011

Dominique Strauss-Kahn è la vera vittima? La parola a Giorgio Stracquadanio

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Cercavo frammenti dell'Infedele di ieri sera. Forse è troppo presto o forse sono stata un'illusa a pensare che le affermazioni di Giorgio Stracquadanio in chiusura della trasmissione potessero diventare un tormentone facebookiano ed youtubiano nel giro di poche ore. Staremo a vedere.

Riassumo dunque quanto avvenuto per chi non avesse avuto il piacere di seguire la puntata.
Discutendo del peso dell'elettorato femminile sui risultati delle comunali, che andavano definendosi in quei minuti, Lucia Annunziata e Gad Lerner hanno portato il discorso sul più ampio tema del fallimento di una certa immagine della donna in politica. La donna pronta a difendere Berlusconi con le unghie e con i denti, anche a costo di negare l'evidenza e denigrare sé stessa in quanto membro della categoria delle donne italiane. La Annunziata sosteneva come negli ultimi tempi molte elettrici si siano stufate, probabilmente perché non riescono ad identicarsi e conseguentemente a sostenere quelle che dovrebbero essere le loro rappresentanti a livello nazionale e talvolta anche locale.
Successivamente ha affermato che questo clima mutato e mutevole lascia trasparire un'altra questione interessante, che procede a braccetto con il rifiuto di un immaginario fatto di signore incazzate, ma sotto sotto "zerbino": forse che le donne abbiano raccolto il coraggio di denunciare i potenti che hanno commesso violenza su di loro?
Dominique Strauss-Kahn
Un esempio chiaro e forte giaceva su un piatto d'argento da parecchie ore, nella forma della cameriera afroamericana che ha recentemente denunciato il direttore del Fondo Montetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn (fino a un paio di giorni fa uno degli uomini più potenti del mondo) per stupro.

L'esempio poteva essere più o meno condivisibile, più o meno calzante. Mi sarei aspettata le reazioni più disparate, magari un attaccarsi all'erroneità del sopraccitato paragone tra Stati Uniti e Italia. Invece è stato detto qualcosa che non mi aspettavo di dover ascoltare.
Giorgio Stracquadanio
Giorgio Stracquadanio, deputato del PdL, già noto per altre sparate su "potere e donne", ha fatto notare che ormai la classe politica è soggetta a costante persecuzione giudiziaria e giornalistica. Ha poi aggiunto che, visti i tempi che corrono, dovrà cominciare a preoccuparsi di prendere l'ascensore in sola compagnia di una persona di genere femminile, perché potrebbe poi trovarsi ingiustamente accusato di molestie o stupro prima ancora di raggiungere il piano al quale si stava recando.

Ah, il clima da caccia delle streghe! Ah, caro Giorgio, quant'è facile rivoltare la frittata, dichiarare che la vittima è Dominique Strass-Kahn, la cui carriera politica è finita nelle fogne, e non la cameriera di Harlem che è stata presa con la violenza. Dimmi, lo fai solo per difendere Silvio, per spostare l'attenzione sui danni alla sua immagine, o sei veramente convinto di quello che dici? Perché se ne sei convinto credo che tu abbia un serio problema di misoginia e, in ogni caso, dovresti dimetterti.
Sì, lo so, oggigiorno in Italia non si dimette più nessuno e poi tu non stavi parlando di Silvio. Stavi parlando di un tizio incredibilmente pieno di soldi e di potere che ha abusato della sua posizione, accaparrandosi il corpo di una donna non consenziente. O, visti i suoi precedenti, forse di più donne.

Devo dunque rassegnarmi; non ti dimetterai. Penso però che, se Lucia Annunziata ha ragione, forse il clima sta veramente mutando. E forse hanno ragione anche gli esponenti dell'opposizione che erano in studio da Gad Lerner ieri sera, quando hanno ringraziato Stracquadanio per la sua ridicola sparata, sostenendo che essa contribuiva non poco a portare acqua al loro mulino in vista dei ballottaggi.
Non si dimetteranno, certo, ma possiamo cacciarli dal Parlamento e dai municipi delle nostre città a suon di voti.

Mtv Made: distruggendo l'autostima dei teenager, un difetto alla volta.

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Made è sempre stato uno dei miei programmi preferiti del palinsesto di MTV. E' un programma con una formula semplice: prendi un adolescente, dagli un obiettivo e cinque settimane per raggiungerlo, e vedi come se la cava.
Chiaramente non sono stata l'unica ad essere catturata: Made ha chiuso la sua undicesima stagione un mese fa, è stato rinnovato per una dodicesima e ha spin-off in diversi stati del mondo – Canada, Francia, Turchia.
Per anni mi sono rifiutata di applicare il mio senso critico a Made, che era il mio momento a zero produzione cognitiva dopo aver studiato un intero pomeriggio – ci sono volute decine di puntate per convincermi che in fondo qualcosa di sbagliato c'era.

Il protagonista maschio standard di Made è il ragazzo sfigato e un poco ciccio che vuole vincere il talent della scuola, o diventare un cosiddetto “ladies man”, qualsiasi cosa voglia dire.
Queste ladies si dividono in due categorie: la sfigata che vuole emergere e la ragazza popolare che vuole dimostrare di essere una dura. La ragazza sfigata vuole diventare reginetta del prom, dimagrire, ma anche diventare una rockstar (uno dei miei episodi preferiti). La ragazza popolare vuole far vedere al resto della scuola che non pensa solo alle scarpe, ma può fare motocross o diventare una pugile.
Hanno tutte qualcosa da dimostrare – e non di certo a se stesse, come sostengono tutte nelle interviste all'inizio della puntata, ma piuttosto agli altri.
Le prime stagioni di Made presentavano ragazze normali, che si ponevano un obiettivo e lo inseguivano per il gusto di vincere una sfida personale. Progredendo nel tempo, le protagoniste si sono sempre di più spostate nella categoria casi umani e anche se non lo erano, venivano trattate come tali.

Diana (S09E13). Da amante di manga e anime a "ragazza vestita come si deve"
Nella nona stagione, tre ragazze si sbranavano vive per vincere un contratto come modella. Anna, Leisha e Keia venivano presentate come una nerd senza amici, una sfigata cavallerizza ed una goth asociale. In realtà è emerso che i loro compagni di scuola erano stati costretti a dire cattiverie su di loro per le testimonianze di inizio puntata, ed avevano passato i mesi successivi a scusarsi – i commenti fatti dalla stessa Anna sono ovviamente spariti dal sito di MTV nel giro di pochissimo.
Quello che nella prima stagione di Made sarebbe stato un esempio positivo di tre ragazze che venivano aiutate ad uscire dal loro guscio di insicurezza, nella nona stagione era una gara spietata ed umiliante, in cui una ragazza taglia 40 veniva definita “chubby”, grassottella, e portata all'esasperazione ed alle lacrime ogni due minuti.

Made è un programma nato con un concetto pseudo-nobile e crollato nella miseria: una puntata non si apre con una persona normale che si vuole migliorare, ma con un difetto enorme da cui la protagonista deve essere assolutamente salvata.
Dopo che il tutto sarà andato in televisione, andrà meglio?
Probabilmente no, ma sarà stato divertente vedere Rachel che da “geek” è diventata “chic” - geek, che parolaccia! - o Ashley, che era già chic, quindi è diventata una pro snowboarder – che orrore, essere una ragazza popolare e simpatica, e non una ribbelle.
La spettacolarizzazione portata all'estremo non è sempre il male, ma in questo caso MTV – una volta una rete innovatrice, interessante, dinamica – ha abbassato ancora di più il suo livello, che si sta uniformando verso il basso, con programmi che si dilettano a schernire chi è davanti alla telecamera, qualsiasi sia la situazione.

Al punto che ora sta per partire Made in versione adulti:
Do you have something you want to prove to your family? Do you often dream about getting back into your cheerleading uniform, winning a cook-off, rocking out with your old band or getting another swing at that pitch that got away? Well, now's your chance. If you appear to be between the ages of 25-50, we want to hear your story.

Meglio di un'associazione di beneficienza: tra mamme minorenni, ragazze ciccione e qualsiasi altra categoria di persone infelici, MTV si sta offrendo di salvare le vite di decine di persone – rovinando quella delle decine di migliaia che guardano i loro programmi e non avranno l'aiuto di un coach per risolvere quello che forse, prima di una puntata in cui Eli è stata trasformata in una “superstar diva”, non era neppure un problema.

lunedì 16 maggio 2011

Grassroots Internet Revolution

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- Carrie Brownstein (ex Sleater-Kinney, ora nelle Wild Flag nonché autrice della serie tv Portlandia) ha una carriera da far invidia a chiunque e non se ne vergogna. La riflessione di Kathleen Hanna.

- Lorella Zanardo, autrice de Il corpo delle donne, racconta l'agguato della troupe di Striscia la Notizia.

- Un consigliatissimo estratto da Big Sex Little Death: A Memoir di Susie Bright: How to Raise a Sexually Healthy Teen.

- Why Won't Glee Give Mercedes a Boyfriend? (su Jezebel). Sì, ce lo stiamo chiedendo anche noi da un paio d'anni.

- A proposito di "libri veri": Il Manzoni scrive da cani (su Gamberi Fantasy). Perchè si studia ancora Manzoni nel 2011? Ha ancora un senso? Gamberetta ci propone di gettare nel dimenticatoio i buoni vecchi Renzo e Lucia e di dedicarci a letture più utili.

- Un grande paese di docenti (su Freddy Nietzsche). Di Dostoevskij, Morgan (in quanto giudice di X-Factor) e molto altro ancora.

- The Catholic Church and Education (su FBomb). L'ora di religione in una scuola cattolica italiana raccontata da una quindicenne femminista. Un post pregevolissimo.

- Traveling Light di Rivkah Gevinson. Un piccolo, splendido cortometraggio sullo stato liminale della ragazza adolescente.

sabato 14 maggio 2011

Tanta nostalgia degli anni ’90. Cult Series: My So-Called Life.

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La mia ultima scoperta e ossessione in campo televisivo si chiama My So-Called Life.
Dopo averne tanto sentito parlare, l’ho finalmente scaricato e adesso mi pento di non averlo fatto molto prima. Forse se avessi visto questa serie alle superiori, sarei sfuggita prima alle grinfie della fase “idiozia adolescenziale” in cui sono stata intrappolata almeno per un paio di anni.

My So-Called Life è un telefilm creato da Winnie Holzman (già sceneggiatrice di Thirtysomething), trasmesso tra il 1994 e il 1995 sul canale americano ABC. La sua cancellazione avviene dopo solo una stagione ed è anche per questo che si è guadagnato lo status di Cult series e un posto nella classifica dei 100 migliori show televisivi di tutti i tempi redatta dal Time.

"It just seems like, you agree to have a certain personality or something. For no reason. Just to make things easier for everyone. But when you think about it, I mean, how do you know it's even you? "

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Intervistando Teresa Cannatà : You've got no reason not to like her.

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Ore otto e quarantacinque anti meridiane. Io e Corsageàcarreaux ci troviamo davanti al liceo Corradini di Thiene e attendiamo non senza un po’ d’agitazione -sarà il sonno, sarà la fame, saranno le stagioni- l’arrivo della nostra intervistata. Sto parlando di Teresa Cannatà, giovane docente di lingua inglese presso il suddetto istituto, collaboratrice del portale Vogue Italia, nonché ideatrice del progetto You’ve got no reason not to fight. Tra poco ne saprete di più, stay tuned.

Mentre aspettiamo fuori dall'edificio, un’orda di studenti con relativi prof al seguito ci pascola davanti per tornare a seguire le regolari lezioni in classe. Le nostre reazioni inizialmente sono differenti. Mi accorgo che Collegaàcarreaux sta ritrovando la sua spavalderia precedentemente persa nel sonno. La tradisce un’espressione fra il gioioso e il beota: ella sa infatti che non dovrà chinare la testa e seguire i compagni per subire le dure lezioni impartite dagli insegnanti. Ella potrà andarsene al bar. POTRA’ ANDARSENE AL BAR.
Dalla mia, invece, la reazione è mantenuta molto sul low profile, anzi, si sposta sul lower, e non appena scorgo i visi dei pastori di mandrie studentesche sento di dover ancora una volta abbassare la testa. Ehi? Perché niente rimproveri? Dove sono i checifailìfilainclasselaprossimaoratiinterrogo? Poi capisco. Eccola. L’espressione tra il gioioso e il beota mi ha raggiunta.
POTREMO ANDARE AL BAR.

Che poi, fa tanto alcolismo ultimo stadio messa così no? Invece no. Siamo solo in sollucchero per non aver più sedici anni, i brufoli (ehm ehm) e le regole che i sedici anni comportano. Non che da ultra ventenni la vita sia in discesa. Ma il primo scalino in salita almeno l’hai già fatto.

Tutto ciò avviene tra le otto e quarantacinque e le otto e quarantasette.
Teresa infatti ci raggiunge puntuale. Grazie a Dio; lo stream of consciousness da disadattate è stato placato.
Dicevamo. Teresa. O meglio, una maglietta dei Nirvana. Perché è esattamente questo il dettaglio su cui il nostro occhio si è fissato. Una sorridente professoressa con la t-shirt dei Nirvana (sfondo bianco e figura alata della copertina di In Utero), l’aria gentile e un’aura grunge che ci mette subito a nostro agio. Le titubanze iniziali decadono all’istante e mi trovo già a fantasticare sulla chiacchierata che stiamo per fare. Dopo esserci spostate in un bar (eh eh) non lontano, attacchiamo con le domande.

mercoledì 11 maggio 2011

Qualcuno gioca sporco

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Qualcuno gioca sporco sulla nostra pelle, mantenendosi però all'interno dei limiti di legge e, magari, facendosi a parole paladino della difesa dei diritti delle donne.
Alcuni mesi fa, su queste pagine, si parlava della recente commercializzazione, all'interno dei negozi del colosso americano della distribuzione Walmart, di una linea di trucchi ideata ed espressamente dedicata alle pre-adolescenti. "Un semplice gioco" sostenevano alcuni, "Chi non ha mai rubato da piccola il rossetto della mamma per truccarsi?" chiedevano altri. Non ritorno sul tema, già ampiamente affrontato da Margherita, e nemmeno voglio soffermarmi su programmi dedicati alle teen ager incentrati sul tema della "linea perfetta". Anche in questo caso infatti c'è chi ne ha già parlato e meglio di quanto potrei fare io.
Il post di oggi nasce invece da una riflessione che facevo alcuni giorni fa mentre cercavo di acquistare un paio di jeans: nulla di più banale. Bene, prima di riuscire a trovare un paio di pantaloni adatti ho fatto numerose prove in diversi negozi della mia città: dalle grandi catene ai semplici negozi del centro. Ragazza dai gusti difficili? Direi di no, semplicemente non riuscivo a trovare un paio di jeans adatti alla mia costituzione. A questo punto si rende necessaria una piccola divagazione biografica: non sono una ragazza particolarmente grassa o particolarmente magra. Secondo le tabelle dell'Organizzazione mondiale della sanità sono classificabile come una donna di corretto peso forma, non sono sproporzionata, almeno non in modo patologico, appartengo, come costituzione, al tipo medio di ragazza mediterranea (il che, vivendo in Italia, a rigor di logica, credo sia comune).
Date queste premesse dovrebbe essere per me abbastanza semplice trovare un paio di banalissimi jeans e invece l'impresa si è rivelata più ardua del previsto. La maggior parte dei negozi che ho visitato infatti vendevano prodotti le cui taglie non erano, evidentemente, tarate sul concetto di "normalità" individuato dalle, sempre molto elogiate, normative mediche europee. Una 40 corrispondeva all'incirca ad una 36, una 42 ad una 38 e così via. Nessun problema particolare, direte voi, basta comprare una 46 e avrai il paio di jeans tanto agognato. Peccato però che la taglia 46 non fosse prevista: troppo grande. Osservo più attentamente i capi d'abbigliamento proposti: sono modelli giovani, spesso di marche di medio costo, rivolti evidentemente ad un pubblico della mia età. Altro grave errore: evidentemente il pubblico non è solamente questo. E qui si scopre l'arcano: ad un'analisi più attenta del target dei negozi e della conformazione dei prodotti, mi accorgo che sono davanti a jeans per ragazze tarati su taglie da bambina. Vita e fianchi strettissimi, gambe lunghe, modello attillato.
Mi fermo a riflettere: quando portavo una 36 (perché c'è un momento nella vita di tutte noi nel quale abbiamo portato una 36)? Quando avevo all'incirca 11-12 anni e la 36 non si chiamava così, ma si chiamava taglia 11-12. Al tempo vestivo abiti studiati per la mia età: cose carine s'intenda, non immaginatemi vestita da damina o con assurdi pagliaccetti, ma erano abiti disegnati da stilisti (mi piace riconoscere il nome di stilista non solo alle grandi firme, ma anche al ragazzo sottopagato che disegna felpe per note multinazionali) appositamente per la mia fascia d'età.

Mi fermo a riflettere: quante dodicenni ora come ora accetterebbero ancora di vestirsi alla Benetton bambini, solo per fare un esempio? Mi guardo intorno e noto che effettivamente il negozio è popolato da ragazzine molto giovani. Forse ho sbagliato reparto? No, sono nel posto giusto, o almeno in quello che fino a pochi anni fa poteva essere considerato il posto giusto e ora, a meno che non si voglia passare per gravi obese, non è più adatto ad una ragazza normale di 26 anni. Cambio negozio, stessa trafila. Mi domando se sia giusto, per le mie coetanee e non solo, vivere con la costante sensazione di essere "fuori dal canone". Conosco ragazze che, mortificate per le continue prove fallimentari di taglie ritenute un tempo idonee a ragazze normali, affrontano diete estenuanti per rientrare nei vestiti di quando avevano 12 anni. 12 anni, praticamente delle bambine. Prima di chiudere con alcune amare riflessioni vi rassicuro sulle mie sorti: ho trovato i jeans e li ho trovati in una catena che utilizza taglie normali, per donne normali e possiede un apposito reparto bambini in cui le dodicenni possono andare a fare spese.
Dopo questa parentesi rasserenante però devo passare alle amare riflessioni: da anni ci sentiamo bombardare da messaggi edificanti e anti anoressia che ci incitano ad accettare il nostro corpo, ad amarci "perché noi valiamo", a fare riferimento a criteri di "salute" e non a modelli assurdi dettati dalla malattia di alcune modelle. Tante belle parole, che però vengono trascinate via dal vento del mondo reale, quel mondo dove è molto difficile sentirsi "normali" non trovando capi d'abbigliamento della propria taglia, spinte in un continuo confronto con lolite adolescenti. L'ipocrisia di questo discorso è evidente, ma forse lo è per me che, fortuna ha voluto, sono nata e cresciuta in un ambiente molto attento a trasmettermi un'immagine reale del mondo e mi ha munita di senso critico. E' lo stesso per altre mie coetanee? Sarà lo stesso per le future ventenni? Non credo.
La seconda amara considerazione riguarda un ulteriore grado d'ipocrisia: quello di chi difende l'infanzia ed in particolare l'infanzia delle bambine. Trucchi, abiti attillati e modellati sul

lo stile teen, accessori, programmi di bellezza dedicati non sembrano puntare ad una valorizzazione dell'infanzia, quanto piuttosto alla creazione di quel modello di ninfetta di cui sopra. Attraenti, sexy, aggressive. Sono aggettivi adatti all'infanzia? Che fine fanno le piccole Lolite?
Bene io penso che a noi ragazze spetti l'ennesimo duro compito: combattere una battaglia di civiltà. Rifiutiamoci di accettare che certi marchi di moda impongano standard incompatibili con la normalità. Rifiutiamoci di essere messe nella condizione di sentirci diverse, grasse, strane, solo perché abbiamo le forme di una donna e non di una bambina. Difendiamo il diritto di queste bambine ad essere tali e smettiamola di accondiscendere a modelli che potrebbero, ad uno sguardo ipercritico, essere tacciati di istigazione alla pedofilia.
Anche l'acquisto di un capo d'abbigliamento può essere responsabile: chi pubblicizza la propria merce attraverso modelli sbagliati non dovrebbe ricevere nemmeno un centesimo dalle nostre tasche. Riappropriamoci delle nostre taglie, quelle vere, e smettiamola di giocare al martirio inseguendo attraverso privazioni e sacrifici il fisico di una dodicenne. E' la responsabilità dell'essere adulte: ci sono anche tanti benefici, che vanno ben al di là di una taglia 38.

martedì 10 maggio 2011

Grassroots Internet Revolution

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Sì, è vero, c'è gente convinta che la cosa chiamata internet sia un luogo brutto e puzzolente, dal quale nulla di buono può venire. Noi la pensiamo diversamente ed è per questo che, d'ora in poi, la redazione di Soft Revolution vi proporrà settimanalmente una piccola selezione di post, video o altri contenuti reperiti online che, dal nostro umile punto di vista, sono degni d'attenzione.
Il titolo della nuova rubrica, come avrete intuito, è Grassroots Internet Revolution.


- I Miss Amy Winehouse di Dvora Meyers (su Jezebel). Ovvero: AW come antitesi dello stereotipo della donna ebrea per bene che vorreste proprio sposare. Inoltre: come i sensi di colpa instillati dalla prima grande religione monoteista si riflettono sui testi della Nostra.

- Revenge of the Feminerd: Bluestockings, the Original Feminerds su Bitch Media. Prima delle suffragette e del nostro rimuginare sulla rappresentazione delle ragazze nerd nei film e nelle serie tv che ci nutrono, c'erano le donne della Blue Stockings Society.

- Filling the Gaps su Feministe. Della differenza tra attivismo e spalar merda sugli altri. Molta saggezza e spunti sui quali riflettere e dei quali vi invitiamo a  discutere con le vostre amichette e i vostri amichetti.

- The Social Construction of the Mothering Instinct. Lisa Wade di Sociological Images ci invita a celebrare la Festa della Mamma di domenica scorsa con una riflessione sulla naturalità (ma anche no) dell'"istinto materno", così come viene rappresentato nella nostra società.

- Why Meg White Matters su AV Club. Un post che volevamo segnalare da tempo e che risale più o meno allo scioglimento dei White Stripes. Da spalmare in faccia a chi se ne va ancora in giro sostenendo l'incompetenza di Meg White alla batteria.

giovedì 5 maggio 2011

Ho fatto le elementari del libro "Cuore", V puntata

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Si dice che per tenere alta l'attenzione nel corso di un film, di un romanzo o di uno sceneggiato, gli autori debbano, di necessità, inserire scene di nudo, di sesso, d'amore o almeno qualcosa di un pò pruriginoso. Non essendo tanto colta e d'essay da potermi sottrarre a questa dura legge è giunto il momento di raccontare le verità più scabrose di una terza elementare di provincia.
Come potete immaginare i temi amorosi non erano particolarmente apprezzati nella mia scuola, meno che mai dalla mia maestra, che risultava essere una delle più severe assertrici della non promiscuità in classe. Se fosse stato per lei, molto probabilmente, saremmo stati ancora suddivisi rigidamente: maschi da una parte, femmine dall'altra. La castità e la purezza erano valori predicati sottilmente ma in maniera costante, ad incominciare dalla scelta dei "fiori" che dovevano rappresentare, durante le gare di matematica (su questo triste tema tornerò in un altro post), i tre gruppi in cui era suddivisa la classe. Al momento della scelta la priorità era stata data ai gigli (per ovvie ragioni), alle violette (perché timide e pudiche nel loro sbocciare solo nell'ombra) e le rose (in chiave dichiaratamente mariana). Io avevo proposto i girasoli. Mi parevano belli, da piccola li adoravo: grandi, coloratissimi e con tutti quei petali erano un tripudio per gli occhi e per gli amanti del giallo. Ricordo ancora che mi era stato risposto che il girasole era un fiore chiassone e grezzo; non ho mai controllato la definizione di girasole su di un libro di botanica, ma immagino che non troverei nulla del genere. Ma questo era solamente un assaggio, il meglio doveva ancora venire e sarebbe giunto, in terza elementare, al rientro da un'intervallo post mensa, segnando per sempre le coscienze di noi pargoli.
Da bravo maschiaccio avevo trascorso l'intervallo in cortile, probabilmente a cimentarmi nella costruzione di qualche complicata architettura a base di legnetti, e non mi ero accorta che, appena dietro alla siepe che divideva il cortile dal capanno degli attrezzi da giardinaggio, un mio compagno di classe e una mia compagna, al tempo terribili ottenni, si erano scambiati un bacio a stampo sulla bocca.
A me era sfuggito, ma non era sfuggito all'occhio vigile della suora di guardia, che aveva riferito tutto con puntualità alla maestra. Eccoci dunque rientrare in classe al suono della campanella, ci sediamo nei banchi e i due bambini, che chiamerò con nomi fittizi, per una finta pruderie da privacy, Nicodemo e Clotilde, vengono chiamati a fianco della cattedra.
Nel giro di pochi minuti avviene l'irreparabile: smascherati davanti alla classe, pubblicamente sgridati, scherniti dalla componente maschile (sempre pronta ad un bel "che schifo, hai baciato una femmina"), umiliati insomma, Clotilde e Nicodemo scoppiano a piangere. Clotilde in particolare viene mortificata per il suo comportamento sconveniente e stigmatizzata quale novella Maddalena.

Ovviamente ripensandoci oggi tutta la scena mi appare soltanto grottesca, ma al tempo restammo talmente traumatizzati dalla terribile reazione punitiva, da non prendere nemmeno in considerazione l'ipotesi di avvicinarci ad un essere dell'altro sesso prima della maggiore età. Giurin giurello (bisognerà aspettare addirittura le medie per avere i racconti più imbarazzanti sui pomeriggi passati a giocare a una "bottiglia" edulcorata, e adatta a evitare i sensi di colpa da divina punizione, nel cortile della parrocchia).
L'apice però venne raggiunto durante una lezione edificante sulla vita di Maria Goretti.
Ricordo distintamente il modo del tutto positivo, con tinte da poema epico, con il quale ci venne presentata la mesta fine della fanciulla. Piuttosto che cedere alla violenza carnale, la ragazza si era votata alla morte. Il sesso è qualcosa di talmente sporco ed infamante che... piuttosto la morte! Nella mia testolina però qualcosa aveva già fatto cortocircuito rispetto agli insegnamenti inculcati: trovai la fine della povera Maria Goretti alquanto stupida, come avrei trovato terribile e assolutamente egoistico il martirio di Gianna Beretta Molla, ma di questo parlerò nella prossima puntata, tutta dedicata al "come terrorizzare i bambini con virtuosi esempi" e all' "abbigliamento provocante e trasgressivo di una settenne". Stay tuned.

lunedì 2 maggio 2011

Io contro natura? Tu controsenso - Omosessuali e omofobici nell'Italia dello scontento

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«La vita sessuale degli altri mi ha fatto sempre vergognare
della mia: il male è dunque tutto dalla mia parte? »

Pier Paolo Pasolini (1922-1975),
uno dei maggiori intellettuali italiani
del secolo scorso,omosessuale.




Partendo dal principio. Che cosa significa “omofobia”? Mi fa sorridere una nota rinvenuta su Facebook che titola “Omofobia??? Mi dispiace ma nel mio dizionario questa parola non esiste”; in effetti, nei dizionari che ho a casa, questa parola non compare. Ciononostante, il suo significato mi è tutt’altro che oscuro.
Si parla di omofobia quando si vuole indicare l’atteggiamento di irrazionale avversione espresso ai danni di persone omosessuali o dell’omosessualità in generale. Il suffisso fobia, tipico delle patologie, non deve però trarre in inganno: il termine omofobia non viene usato con un’accezione clinica, quanto piuttosto in un senso più generico, un po’ come per “xenofobia”.
Sull’uso del termine, sui suoi omologhi (“pregiudizio sessuale”,“omoerotofobia” ed altri) si sono concentrati molti studiosi. Ciò che emerge dai diversi punti di vista è (in brevissimo) che l’omofobia coinvolge più spesso il sentimento di disapprovazione legato alla morale personale – con la possibilità di sfociare in aperto “disgusto”, nei casi peggiori – piuttosto che non quello della paura vera e propria. L’intolleranza nei confronti dell’omosessuale è legata spesso al timore di chi omosessuale non è, di sembrarlo ed è provato come essa sia sentita più frequentemente da uomini (spaventati all’idea di essere considerati “effeminati”) che da donne (il cui rischio, opposto, è quello di venir etichettate come “maschiacci”); come la “questione di genere” ci insegna, il sesso debole è quello femminile ed è per questo che i maschi possono sentirsi a disagio (per usare un eufemismo) nel sentirsi in tal modo etichettati (o etichettabili).
E in Italia? Esiste l’omofobia? Qual è l’atteggiamento degli italiani di fronte a persone LGBT? Vorrei potermi sentire più sicura nel dire che il nostro paese ben accoglie gli orientamenti sessuali non strettamente etero, ma purtroppo non è così. Certo, l’Italia soffre di omofobia meno di altri paesi (Romania, ad esempio: stando ad un report dell’Istituto Danese per i Diritti Umani, questo paese al 2008 era quello con la percentuale più alta di percezione di disagio rispetto all’avere un vicino di casa omosessuale) ma è comunque al di sotto dei livelli di accettazione medi dell’UE. L’influenza della Chiesa Cattolica, in tal senso non ci aiuta: il Vaticano mostra da sempre grandi difficoltà nell’affrontare il tema dell’unione di uomini e donne gay. Benedetto XVI nel suo libro “Luce del mondo” (2010) ricorda l’importanza del rispetto nei confronti di queste persone ma ribadisce, al tempo stesso, come l’omosessualità sia contro natura e mai giusta. A rincarare la dose (casomai servisse) ci pensa il cardinal Bertone, segretario di stato Vaticano, che in un intervento in Cile provò a spiegare la questione della pedofilia (tema che lo scorso anno risultò particolarmente infuocato a causa delle denunce che coinvolsero numerosi sacerdoti) escludendo che questa potesse essere legata al celibato cui i preti cattolici fanno voto, quanto più probabilmente connessa con l’omosessualità. O ancora, Monsignor Rigon, vicario della diocesi di Genova, che lo scorso febbraio ha dichiarato che l’omosessualità si può curare con la psicoterapia (se “presa” in tempo), poiché essa non è altro che una patologia indotta (non si nasce infatti omosessuali, a meno che non siano coinvolte delle “disfunzioni ormonali o fisiche” – questa la sua opinione). Tutto ciò ricorda molto Povia. Già.
Se rivolgiamo lo sguardo alla politica del nostro paese, non occorre andare troppo indietro nel tempo per accorgersi che anche in questo campo c’è qualche problema riguardo quest’argomento.
Aprile 2011. Con ordine.
4 aprile.
Roberto de Mattei, vicepresidente del Consiglio Nazionale per le Ricerche (CNR), nonché docente di Storia del cristianesimo e della Chiesa presso la privata Università Europea di Roma e fervente membro del Pdl, afferma a Radio Maria che la caduta di Roma imperiale fu dovuta al “contagio” dei pochi omosessuali cartaginesi; costoro sono definiti da De Mattei come “invertiti” la cui “abominevole presenza infettò un bel po’ di gente”. Cita Salviano di Marsiglia, ma poco importa. Lo cita non per confutarlo, ma per perorarne le tesi.
In altre occasioni lo stesso De Mattei si era scagliato contro il femminismo, ritenendolo responsabile dell’avvento dell’omosessualismo, dell’androginia e dell’ermafroditismo. Un climax ascendente, che trovava il suo apex nelle seguenti parole: “ L’Europa è un inesorabile ermafrodito”. De Mattei è, per intenderci, colui che ha definito lo tsunami giapponese dello scorso 11 marzo una “voce terribile ma paterna della bontà di dio”.
16 aprile.
Roma, convegno dei nuovi organismi di sostegno del Pdl (organizza Michela Vittoria Brambilla). Durante lo speech del nostro premier, un adulatore gli grida “sei bello”, offrendogli su di un piatto d’argento la possibilità di snocciolare l’ennesima testosteronica battuta: sostenendo che costui che ha urlato ha dato voce al suo 25% di omosessualità (quarto che tutti noi possediamo, ipse dixit) Berlusconi rassicura la platea sul fatto che il suo personale 25% è lesbico (un approfondito esame l’ha confermato). Scroscio di applausi.
Rewind. Novembre scorso (mentre altri ricordavano il 35simo della morte di Pasolini): al salone del ciclo e motociclo di Milano, Berlusconi dichiara che è “meglio essere appassionati di belle ragazze che gay”. L’effetto “applauso smodato” arriva con un po’ di ritardo, questa volta. A difendere poi il premier dalle critiche che gli sono piovute addosso dopo questa uscita ci pensa Vittorio Sgarbi, il quale dichiara a Libero che la frase del premier “non è offensiva” e che “nel mondo mussulmano, ebraico e cristiano, l’omosessualità non è una virtù”. Guzzanti (Paolo, uscito dal Pdl nel 2009) dice che la frase di Berlusconi è un messaggio preciso ai suoi elettori, parafrasandolo in “meglio puttaniere che frocio”.
20 aprile.
Il deputato del PD, Paola Concia, dichiaratamente omosessuale, viene aggredito fuori da Montecitorio mentre si reca alla macchina con la sua compagna. Le viene urlato contro “lesbica di merda, vi dovevano bruciare nei forni”. Molti esponenti politici hanno espresso solidarietà alla Concia e alla sua compagna e condannato l’accaduto. Berlusconi abest.
23 aprile.
Carlo Giovanardi, sottosegretario alla famiglia, protesta contro la pubblicità dell’Ikea che mostrando l’immagine di due uomini mano nella mano, lancia lo slogan “siamo aperti a tutte le famiglie”. Bufera. Secondo il sottosegretario, la parola famiglia in quel contesto sarebbe del tutto fuori luogo, o meglio incostituzionale. L’unione sancita dal matrimonio (tra uomo e donna, quindi) e garantita dalla Costituzione Italiana all’articolo 29, andrebbe difesa dall’operato di certe lobby che parrebbero (si salvi chi può!) volerla parificare a qualsiasi altra forma di convivenza.
Lo stesso Giovanardi avrebbe espresso vicinanza al deputato Concia per l’accaduto citato al punto precedente, sollecitando una riflessione sulla violenza “che riempie la cronaca di efferati delitti” e va a colpire “soprattutto le donne, sia nei rapporti etero che in quelli omosessuali”; a suo parere è quindi arrivato il momento di affrontare l’ “oscuro demone che fa vedere negli altri non persone da rispettare nella loro dignita' ed autonomia, ma oggetti da poter impunemente offendere”. Non si possono che condividere, certe parole; il rammarico è semmai relativo al fatto che un pensiero simile non sia sorretto da un’altrettanto lodevole comportamento e capacità di relazione. Sbaglio o era stato proprio Giovanardi a sostenere che nei paesi che concedono l’adozione anche alle coppie gay si è ingenerata una vera a propria ‘compravendita’ di bambini? Eccolo qua il suo rispetto della dignità e dell’autonomia.
E questo era il mese di aprile. Tra gli archivi del passato, troviamo altri interventi offensivi, tra cui quello del deputato Pdl Giancarlo Lehner che ironizzava sul sostegno dei cittadini gay agli operai della FIAT lo scorso gennaio (i gay sarebbero dalla parte degli operai, ma quale? Davanti, di dietro o di lato?) o quello del consigliere della provincia di Padova, il leghista Pietro Giovannoni, che definì gli omosessuali maschi come “culattoni” mentre in aula si discuteva della mozione contro l’ omofobia (l’uso del termine poc’anzi virgolettato è peraltro inflazionato tra i membri del Carroccio: prima del consigliere provinciale già Gentilini e Bossi lo avevano utilizzato in pubblico): quando gli è stato fatto notare che il termine che aveva usato non era ammissibile, la sua scusante è stata quella del “io parlo spesso a braccio, e negli interventi me piase dir qualche parola in veneto, ecco”. Già, peccato però che non eri alla sagra della bondola a parlare di pan e sopressa (massimo rispetto alla sagra in questione, comunque).


Volendo analizzare l’escalation di questo mese ormai giunto alla fine si può rilevare come, laddove non si possa parlare di omofobia in stretto senso discriminatorio-ingiurioso (aggressione ai danni della Concia), è il caso allora di parlare di becera mancanza di rispetto (Berlusconi), di mentalità retrograda, tendenzialmente omofoba su un piano però pregiudiziale (De Mattei) e incapacità di svolgere il proprio ruolo istituzionale sostituendolo piuttosto con ampia capacità di perdersi in questioni insussistenti, sintetizzabile in ipocrisia (Giovanardi).
Che dire? Il clericalismo di De Mattei ormai turba i sogni di molti (gli stessi molti – compresa la sottoscritta – che vorrebbero le sue dimissioni da vicepresidente del CNR domattina sulla scrivania di Maiani, l’attuale presidente) e le sue ultime perle sulla caduta di Roma fanno ridere - se non piangere. Forse quando al catechismo insegnavano che è importante amare il Prossimo lui era a casa con la febbre.
Berlusconi continua imperterrito a fomentare questo clima da “buttiamola in vacca” (perdonate il francesismo, ma volevo mantenere il livello di spontaneità cui costui ci sta abituando) e “scherziamoci sopra”, ben felice di sentire i suoi sostenitori sgomitare e spellarsi le mani nel mostrare il loro pieno apprezzamento verso cotale umorismo. Nei casi sopracitati, s’è visto come nemmeno gli omosessuali vengano risparmiati dalle sue continue frecciate. Si sa che quando tra perbenisti si parla di persone LGBT, non si pensa mai all’Amore, ma sempre al sesso; e quando ciò diventa argomento di conversazione, beh, Berlusconi sfodera il suo peggio (temo non la smetterà mai di ribadire che lui è uno che lo mette e non uno che lo prende).
Giovanardi mostra di avere molto tempo libero da dedicare ai dettagli inutili invece di dedicarsi alle mansioni per cui è stato nominato sottosegretario. La sua crociata per la difesa dell’articolo 29 della Costituzione (ovvero La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.”) ha mostrato qualche falla nel momento in cui s’è scagliato contro l’Ikea per quella pubblicità. A nulla è valso l’intervento del responsabile delle relazioni esterne per l’Italia della multinazionale svedese, Valerio Di Bussolo, che molto serenamente ha risposto alla critica di Giovanardi spiegando che quella indicata all’articolo 29 è una tipologia di famiglia (quella di due persone sposate), mentre loro intendevano rivolgersi alle molte altre realtà familiari che attualmente esistono (famiglie formate dai nonni, coppie di fatto, eccetera). Si tratta di uno spot, per l’amor di dio! Discutiamo piuttosto delle pubblicità televisive che mostrano genitori tremendamente ansiosi di avere figli solo per avere la scusa buona per potersi comprare l’ultima station wagon vomitata sul mercato!

L’episodio che ha visto coinvolta la Concia è indice del livello di barbarie in cui una fetta di Italia sta ricadendo. L’aspetto più agghiacciante dell’accaduto è che lei non stava facendo nulla di male, semplicemente stava andando a prendere la macchina per andare ad un concerto. La cosa più normale del mondo, poi arriva un troglodita ed inizia ad insultare lei e la compagna, colpevoli di essere lì mano nella mano (come i protagonisti dello spot Ikea contro cui s'è scagliato Giovanardi). L’aggressione da verbale stava diventando fisica, ha raccontato il deputato, ma fortunatamente poi ciò non si è verificato. C’è da dire che mentre si verificava quest’aggressione alcune persone si trovavano nei paraggi ed hanno assistito alla scena, tuttavia senza intervenire, anzi (peggio e ancora più incomprensibile) rimproverando alla Concia un certo atteggiamento. Speriamo solo che lei (già fattasi promotrice nel 2009 di un testo di legge sull’Omofobia – poi bocciato su pregiudiziale di incostituzionalità – che prevedeva l’aggiunta, tra le aggravanti dell’articolo 61 del codice penale, di quella per l’orientamento sessuale), che lei, insomma, non smetta di battersi per i diritti delle persone LGBT perché fatti del genere accadono spesso (solo, non vengono sistematicamente denunciati) e c’è il rischio - come altri hanno osservato a pochi giorni dall’accaduto - che la partecipazione (già scarsa) a tali iniziative di supporto vada riducendosi ulteriormente, se non morendo (nel caso più estremo).
Segnalo, a proposito di partecipazione, la giornata mondiale contro l’omofobia e la transfobia il prossimo 17 MAGGIO, per chi fosse interessato.

E per una boccata d’aria, almeno alla fine, ritorno con Pasolini.
Di seguito, una sua intervista ad Ungaretti estratta da “Comizi d’amore” (1963-64), un documentario-film inchiesta in cui vengono investigate le opinioni degli italiani in merito all’amore e alla sessualità. Operai, studenti, contadini, persone comuni ma anche personaggi noti vengono da lui (che pure dirige) interpellati. E questo è il contributo di Ungaretti, il poeta. Le riflessioni in merito a ciò che viene detto le lascio a voi.
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