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mercoledì 11 maggio 2011

Qualcuno gioca sporco

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Qualcuno gioca sporco sulla nostra pelle, mantenendosi però all'interno dei limiti di legge e, magari, facendosi a parole paladino della difesa dei diritti delle donne.
Alcuni mesi fa, su queste pagine, si parlava della recente commercializzazione, all'interno dei negozi del colosso americano della distribuzione Walmart, di una linea di trucchi ideata ed espressamente dedicata alle pre-adolescenti. "Un semplice gioco" sostenevano alcuni, "Chi non ha mai rubato da piccola il rossetto della mamma per truccarsi?" chiedevano altri. Non ritorno sul tema, già ampiamente affrontato da Margherita, e nemmeno voglio soffermarmi su programmi dedicati alle teen ager incentrati sul tema della "linea perfetta". Anche in questo caso infatti c'è chi ne ha già parlato e meglio di quanto potrei fare io.
Il post di oggi nasce invece da una riflessione che facevo alcuni giorni fa mentre cercavo di acquistare un paio di jeans: nulla di più banale. Bene, prima di riuscire a trovare un paio di pantaloni adatti ho fatto numerose prove in diversi negozi della mia città: dalle grandi catene ai semplici negozi del centro. Ragazza dai gusti difficili? Direi di no, semplicemente non riuscivo a trovare un paio di jeans adatti alla mia costituzione. A questo punto si rende necessaria una piccola divagazione biografica: non sono una ragazza particolarmente grassa o particolarmente magra. Secondo le tabelle dell'Organizzazione mondiale della sanità sono classificabile come una donna di corretto peso forma, non sono sproporzionata, almeno non in modo patologico, appartengo, come costituzione, al tipo medio di ragazza mediterranea (il che, vivendo in Italia, a rigor di logica, credo sia comune).
Date queste premesse dovrebbe essere per me abbastanza semplice trovare un paio di banalissimi jeans e invece l'impresa si è rivelata più ardua del previsto. La maggior parte dei negozi che ho visitato infatti vendevano prodotti le cui taglie non erano, evidentemente, tarate sul concetto di "normalità" individuato dalle, sempre molto elogiate, normative mediche europee. Una 40 corrispondeva all'incirca ad una 36, una 42 ad una 38 e così via. Nessun problema particolare, direte voi, basta comprare una 46 e avrai il paio di jeans tanto agognato. Peccato però che la taglia 46 non fosse prevista: troppo grande. Osservo più attentamente i capi d'abbigliamento proposti: sono modelli giovani, spesso di marche di medio costo, rivolti evidentemente ad un pubblico della mia età. Altro grave errore: evidentemente il pubblico non è solamente questo. E qui si scopre l'arcano: ad un'analisi più attenta del target dei negozi e della conformazione dei prodotti, mi accorgo che sono davanti a jeans per ragazze tarati su taglie da bambina. Vita e fianchi strettissimi, gambe lunghe, modello attillato.
Mi fermo a riflettere: quando portavo una 36 (perché c'è un momento nella vita di tutte noi nel quale abbiamo portato una 36)? Quando avevo all'incirca 11-12 anni e la 36 non si chiamava così, ma si chiamava taglia 11-12. Al tempo vestivo abiti studiati per la mia età: cose carine s'intenda, non immaginatemi vestita da damina o con assurdi pagliaccetti, ma erano abiti disegnati da stilisti (mi piace riconoscere il nome di stilista non solo alle grandi firme, ma anche al ragazzo sottopagato che disegna felpe per note multinazionali) appositamente per la mia fascia d'età.

Mi fermo a riflettere: quante dodicenni ora come ora accetterebbero ancora di vestirsi alla Benetton bambini, solo per fare un esempio? Mi guardo intorno e noto che effettivamente il negozio è popolato da ragazzine molto giovani. Forse ho sbagliato reparto? No, sono nel posto giusto, o almeno in quello che fino a pochi anni fa poteva essere considerato il posto giusto e ora, a meno che non si voglia passare per gravi obese, non è più adatto ad una ragazza normale di 26 anni. Cambio negozio, stessa trafila. Mi domando se sia giusto, per le mie coetanee e non solo, vivere con la costante sensazione di essere "fuori dal canone". Conosco ragazze che, mortificate per le continue prove fallimentari di taglie ritenute un tempo idonee a ragazze normali, affrontano diete estenuanti per rientrare nei vestiti di quando avevano 12 anni. 12 anni, praticamente delle bambine. Prima di chiudere con alcune amare riflessioni vi rassicuro sulle mie sorti: ho trovato i jeans e li ho trovati in una catena che utilizza taglie normali, per donne normali e possiede un apposito reparto bambini in cui le dodicenni possono andare a fare spese.
Dopo questa parentesi rasserenante però devo passare alle amare riflessioni: da anni ci sentiamo bombardare da messaggi edificanti e anti anoressia che ci incitano ad accettare il nostro corpo, ad amarci "perché noi valiamo", a fare riferimento a criteri di "salute" e non a modelli assurdi dettati dalla malattia di alcune modelle. Tante belle parole, che però vengono trascinate via dal vento del mondo reale, quel mondo dove è molto difficile sentirsi "normali" non trovando capi d'abbigliamento della propria taglia, spinte in un continuo confronto con lolite adolescenti. L'ipocrisia di questo discorso è evidente, ma forse lo è per me che, fortuna ha voluto, sono nata e cresciuta in un ambiente molto attento a trasmettermi un'immagine reale del mondo e mi ha munita di senso critico. E' lo stesso per altre mie coetanee? Sarà lo stesso per le future ventenni? Non credo.
La seconda amara considerazione riguarda un ulteriore grado d'ipocrisia: quello di chi difende l'infanzia ed in particolare l'infanzia delle bambine. Trucchi, abiti attillati e modellati sul

lo stile teen, accessori, programmi di bellezza dedicati non sembrano puntare ad una valorizzazione dell'infanzia, quanto piuttosto alla creazione di quel modello di ninfetta di cui sopra. Attraenti, sexy, aggressive. Sono aggettivi adatti all'infanzia? Che fine fanno le piccole Lolite?
Bene io penso che a noi ragazze spetti l'ennesimo duro compito: combattere una battaglia di civiltà. Rifiutiamoci di accettare che certi marchi di moda impongano standard incompatibili con la normalità. Rifiutiamoci di essere messe nella condizione di sentirci diverse, grasse, strane, solo perché abbiamo le forme di una donna e non di una bambina. Difendiamo il diritto di queste bambine ad essere tali e smettiamola di accondiscendere a modelli che potrebbero, ad uno sguardo ipercritico, essere tacciati di istigazione alla pedofilia.
Anche l'acquisto di un capo d'abbigliamento può essere responsabile: chi pubblicizza la propria merce attraverso modelli sbagliati non dovrebbe ricevere nemmeno un centesimo dalle nostre tasche. Riappropriamoci delle nostre taglie, quelle vere, e smettiamola di giocare al martirio inseguendo attraverso privazioni e sacrifici il fisico di una dodicenne. E' la responsabilità dell'essere adulte: ci sono anche tanti benefici, che vanno ben al di là di una taglia 38.

mercoledì 23 marzo 2011

Ho fatto le elementari del libro "Cuore"

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O anche di come la pedagogia non sia una scienza esatta e la Montessori sia passata inosservata per decenni in alcune enclave del piccolo ducato.

Quando ancora frequentavo le lezioni universitarie per la laurea specialistica (oh mio dio come sono vecchia!) ho seguito per alcuni mesi un corso di "Letteratura per l'infanzia e l'adolescenza", il massimo che il mio piano di studi offrisse, a livello di materia pedagogica, nell'offerta formativa per una futura italianista. Durante il corso ci sono state illustrate una serie di teorie volte a rendere i bambini e i ragazzi appassionati lettori, per insegnare divertendo e stimolando le loro menti e senza mortificarli o farli entrare troppo presto nel duro sistema che regge le sorti del mondo adulto. Tutte cose apprezzabilissime e sulla cui sacrosanta verità io non avrei messo becco se il professore non si fosse accanito nel sostenere che, seguendo metodologie differenti, si sarebbe andati incontro ad un sicuro fallimento pedagogico e successivo naufragio della carriera scolastica dei giovani virgulti. Perché mi sono sentita così tanto chiamata in causa da mettere a dura prova il mio self-control per evitare di venire massacrata all'esame? Perché io ho fatto le elementari del libro "Cuore".
Nessun metodo di "approccio lento" alla didattica, nessuna gradualità fra il disegno e il gioco e i primi rudimenti di scrittura. Fin dai primi giorni mi sono ritrovata alla lavagna a fare "le aste". Alcuni di voi non sapranno nemmeno in che cosa consista questa barbara pratica e dunque vado a spiegare, novella etologa o storica della contemporaneità. Il lavoro consisteva nel ripetere all'infinito sul foglio di un quaderno, oppure alla lavagna appunto, una serie di aste: l'equivalente dello slash oppure di un manico d'ombrello. Variava di volta in volta. Aste, su aste, su aste. Il piano pedagogico prevedeva l'uso iniziale della matita per poi passare alla biro (omologata e rigorosamente Pilot blu punta fine, marca che mai più in vita mia ho comprato per una sorta di rifiuto post traumatico). I bambini più bravi passavano per primi alla biro, i più somari dopo, i casi umani, come la sottoscritta, ci sono arrivati per ultimi dopo mesi e una discreta umiliazione. "No, tu continua a matita" detto davanti a tutti è frustrante, soprattutto quando stai ricopiando per la milionesima volta delle aste. Poi è stata la volta dei timbri. Uno dirà "belli i timbri, si possono colorare!": si, in parte vero, ma il timbro della lettera A-B-C-Q-F o dir si voglia, posizionato in cima alla pagina del quaderno in posizione centralissima, prevedeva poi l'estenuante copiatura di una parola che avesse come iniziale la lettera incriminata. In rosso la lettera iniziale, in blu le seguenti. Ape Ape Ape Ape Ape. In bella grafia, non basta che si capisca, e senza sbordacci. Io non ero una brava bambina. Diciamo che non ero satana, ma nemmeno tanto incline allo stare cinque ore a scuola e men che meno ad abbracciare la disciplina a me imposta dalla maestra (rigorosamente unica). Trovavo stupido ripetere allo sfinimento i nomi dei disegni appesi alle pareti con la lettera corrispondente all'iniziale del nome. "A...albero! Bene. B...barca! Bene. C...casa! Benissimo. G...Micio! No! Ma come ti viene in mente?". Sapevo benissimo che G stava per gatto, ma era umiliante, omologante, frustrante proseguire all'infinito il giochino, senza mai uno stimolo differente, qualcosa che potesse far emergere un pochino di quello che ci piaceva all'interno dei muri della classe. Ricordo distintamente che in classe non c'era nulla che mi piacesse. Amavo l'abaco, ma stava sempre chiuso nell'armadio, lontano dalle mani che potevano eventualmente giocarci nelle pause. Amavo i miei regoli, che dovevano però stare sempre ben chiusi nella scatola sotto al banco. Ero una bambina che adorava la televisione e quella che l'aula aveva in dotazione per i filmati educativi stava sempre coperta da un telo. "Niente film" era il dictat. A differenza di quanto avveniva in altre classi di miei coetanei. Noi fermi, "braccia conserte", come diceva la maestra. Dubito che oggi, se si dicesse a un bambino di prima elementare "Stai con le braccia conserte", capirebbe quello che gli si sta chiedendo. Ed è giusto così. Ma io vivevo nel libro Cuore. Matita rossa e blu per le correzioni, nessun atteggiamento materno, lo stimolo (o supposto tale) della prima della classe che veniva sempre presa ad esempio e lodata pubblicamente, il banco della vergogna di fianco alla cattedra. Insomma, ho le mie buone ragioni per dire che i concetti impartiti durante le lezioni universitarie erano quantomeno relativi se sono poi finita a fare un dottorato? Ho già accennato al fatto che la mia scuola era una scuola cattolica? No? Mi è in qualche modo servito? Beh...nelle prossime puntate, se avrete la pazienza di leggermi, magari avrò modo di parlarne.

 
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