giovedì 31 marzo 2011

Fare muro

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Ora, non so se vi sia sfuggito un insignificante dettaglio: siamo in guerra con la Libia. Okay, forse dire “siamo” non è la parola giusta, visto che noi non sganciamo bombe, non spariamo, non attacchiamo soldati, mercenari, eccetera eccetera (insomma, siamo lì per fare una passeggiatina in Libia a quanto pare! Un po’ di sano turismo internazionale!) ma comunque al momento lì è in corso una guerra. Che sia guerra umanitaria, non umanitaria, per il petrolio, lampo, lunga, tattica, di sfiancamento non me ne frega niente: stiamo (stanno) bombardando qualcosa? Muore della gente? Bene, quella è guerra. Il resto sono parole al vento.
Ma quest’umile post non intende disquisire sulla guerra libica, ne hanno già parlato abbastanza. Parla dei profughi a Lampedusa. Ma non della situazione dei centri d’accoglienza o dell’arrivo continuo di stranieri o del problema dello spostamento di questa massa di gente. Parla di come la gente vede questa massa di gente.
“Madonna sti immigrati del cazzo che fastidiosi!! Si lamentano perchè non sono stati accolti bene e perchè non sono in buone condizioni??? ma ringraziate Dio che avete il culo al sicuro e un posto dove stare!”*
Che fastidiosi.
Che schifo.
Non possono stare a casa loro?
Vengono solo per spacciare.
Infatti vedi come sono cresciuti i crimini a Lampedusa!
Poi arrivano qua e rubano, stuprano, spacciano…
Che li ributtino in mare!**
Ma facciamo più schifo noi seduti dietro i nostri schermi a commentare inutili post su Facebook o loro, accatastati in centri di accoglienza che dire che sono affollati è eufemistico?
Anche se nei 6200 immigrati attualmente a Lampedusa ce ne fosse uno che veramente necessita d’asilo (e non credo che sia uno solo) non sarebbe forse nostro dovere concederglielo?
E come si fa a concederglielo, l’asilo politico, se è automaticamente visto dalla gente come “feccia”?
Come si fa a dirgli che l’Italia è la sua nuova patria?
Ma soprattutto, quando capiremo che fuori da questi maledetti confini italiani siamo noi gli ”immigrati del cazzo”? 

*   post realmente esistente su Facebook
** commenti sentiti dalla sottoscritta durante 15 disgraziati minuti da autobus

lunedì 28 marzo 2011

GENTLEMEN BRONCOS: il delirio fantascientifico che non ti aspetti

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Serpenti che cacano copiosamente sulle spalle dei loro proprietari; adolescenti che si scambiano un bacio non prima che uno dei due abbia riversato il contenuto del proprio stomaco nel primo cestino in seguito ad un impulsivo conato di vomito; malvagi antagonisti spaziali che privano l’eroe principale di una gonade per portare avanti il loro diabolico piano di distruzione…
Gentlemen Broncos” (2009) non è un film che conquista con facilità il cuore del pubblico (quelli che vi ho elencato sono solo alcuni esempi delle scene in grado di scatenare il nostro imbarazzo e/o la nostra perplessità di spettatori); ma parliamo pur sempre di un film di Jared e Jerusha Hess, in qualche modo questa coppia di cineasti (già autori del nerdissimo “Napoleon Dynamite” e del combattivo “Nacho libre”) ci ha abituato agli improvvisi lampi di sconcerto (salto sulla sedia seguito dalla consueta esclamazione “ Ma come?! Hhh!” ). Tuttavia, se almeno un po’ ci si fida di loro, il film lo si può continuare a guardare.




La trama principale del film, si badi, è di per sé semplice e appassionante: Benjamin Purvis (interpretato da Michael Angarano, a destra nella foto qui sopra) è un ragazzo piuttosto timido con una grande passione per la fantascienza e la scrittura che vive con la madre (Jennifer Coolidge, con Angarano nella foto), stralunata vedova che si arrabatta per sopravvivere cucendo vestiti oversize di dubbio gusto e provando a rivenderli a prezzi proibitivi. Un giorno Ben partecipa ad un Laboratorio di scrittura creativa, dove incontra il suo mito: Ronald Chevalier (l'ottimo Jemaine Clement, già visto nei Flight Of The Conchords), scrittore fantasy che esordì ad appena 15 anni, grazie ad una brillante trilogia letteraria sulle Cyborg Arpìe. Ai partecipanti al corso viene offerta la possibilità di pubblicare un proprio lavoro, previa accettazione di una giuria “comprovati professionisti dell’editoria” (di cui fa parte lo stesso Chevalier). Benjamin decide così di tentare la fortuna col suo ultimo racconto “I signori del lievito: gli anni di Bronco”, una storia evidentemente di fantasia che ha come protagonista Bronco (interpretato dal bravo Sam Rockwell), un irsuto guerriero, la cui figura si ispira, per ammissione dello stesso giovane autore, al padre scomparso da tempo. Si scopre in fretta, però, che l’esimio Dr. Chevalier è in realtà uno scrittore in piena crisi creativa che rischia di essere abbandonato dal suo editore se non riuscirà a consegnargli entro breve un nuovo bestseller. Dopo aver letto la storia di Benjamin (da un quaderno sgualcito sulla cui copertina il ragazzo aveva provato a creare un’accattivante coverart), il romanziere decide di plagiarla (aggiustandone giusto qualche particolare) e di presentarla al proprio editore come la mirabolante storia di Brutus e Balzaak (dove Brutus è in realtà Bronco, qui trasformato in transessuale con un nuovo nome, mentre Balzaak non è altri che il suo cane). Neanche a dirlo, il libro è un successo.


Nel frattempo Benjamin, che aveva abbandonato il corso prima della sua conclusione (irritato e deluso dalla spocchia di Chevalier), vende (per dei soldi che non vedrà mai) i diritti de “I signori del lievito” ad un paio di amici: Tabatha (Halley Feiffer), che si era da subito interessata alle sue storie e Lonnie (Héctor Jiménez, capace di sfornare alcune delle più fastidiose smorfie facciali mai viste) un sedicente filmmaker di successo che ritiene si possa ricavare dell’ottimo materiale dalla storia di Bronco. Purtroppo per Ben, il risultato di questa improbabile collaborazione sarà un disastro. A consolarlo ci penserà però Dusty, il suo angelo custode (?) proprietario del sopracitato serpente scagazzante, interpretato da Mike White (già visto in "School of rock", è peraltro co-autore della sceneggiatura).
Ma non voglio svelarvi il finale. Vi basti sapere che non mancheranno i colpi di scena, così come non verranno meno le stramberie che fin dall’inizio del film ci hanno fatto dubitare dei nostri sedimentati buoni propositi ( #15 sforzarsi sempre di guardare un film dall’inizio alla fine). Quella che vi ho delineato poc’anzi è la linea principale su cui si muove la narrazione del film. Ad essa però vengono talvolta inframmezzate e la trasposizione filmica casalingo-kitch di Lonnie e le sequenze fantasy in cui assistiamo allo svolgersi progressivo della storia di Bronco (sia nella versione originale di Benjamin che in quella plagiata di Chevalier). A titolo di cronaca vi basti sapere che Bronco non è altri che l’ultimo tra i Signori del lievito (una sostanza misteriosa apparentemente in grado di infondere grandi poteri se ingerita), cui l' acerrimo nemico Lord Daysius ha asportato un testicolo per mettere in piedi una terribile armata a sua immagine e somiglianza. Bronco, con l’aiuto di Vanaya (Venonka, nella versione-plagio) una ragazza che potrebbe essere sua sorella, tenta di assaltare la fortezza sulla montagna dove il nemico conserva il lievito. Ci sarà una grande battaglia a colpi di raggi laser, robot-cervi vedetta ed acrobazie mirabolanti. Hell yeah.


La cifra stilistica dei coniugi Hess sembra proprio essere quella della Oddity, della stranezza, della bizzarria. Qui nulla andrebbe preso sul serio; tutto è parodia: la letteratura fantasy e il mondo degli scrittori i bersagli principali. Non vi mentirò: la critica ha stroncato questo film. Sembra che solo pochi appassionati del genere (forse più tolleranti) siano riusciti a trovarci qualcosa di buono. Io non vado pazza per la fantascienza e ammetto di essermi trovata in difficoltà a mandar giù alcuni momenti della pellicola, ma mi son fatta coraggio e ho guardato il film per intero: ne è valsa la pena. Sarà la brillante colonna sonora che, a partire dalla stratosferica “In the year 2525” di Zager & Evans fino all'intramontabile “Paranoid” dei Black Sabbath che corona un’assurda sequenza d’azione (Benjamin che affronta Don Carlos – l’attore John Baker – un miliardario che aveva fatto una proposta indecente a sua madre) rendendola persino plausibile ed entusiasmante, non sbaglia un colpo. Io alla fine mi sentivo bene, il finale mi aveva rincuorato. Spero di avervi incuriositi un po’. Per il resto … "Possa la lucentezza del cromo della Regina Cyborg illuminare lo spirito di tutti noi".
Alla prossima.

venerdì 25 marzo 2011

Mordimi Tutta, o quello che sta succedendo alla letteratura per adolescenti

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Quando Harry Potter è stato spostato dalla letteratura per ragazzini alla sezione classici, un enorme vuoto si è aperto nella sezione young adults. Questo buco è stato riempito da un miliardo di copie della nostra saga romantico-necrofila del cuore, Twilight.
Lunedì scorso sono andata in gita da Waterstone's Piccadilly, la mia libreria preferita (di cinque piani enormi, con dentro una cartoleria, un reparto riviste ed un bar - praticamente il paradiso) ; nonostante il terrore mi attanagliasse, mi sono inoltrata come un ninja nell'area bambini ed ho documentato lo stato agghiacciante di quasi metà del secondo piano.
L'era dei vampiri ha trasformato la sezione giovani lettori in un altare a qualsiasi genere di creatura sovrannaturale – dai vampiri ai mannari, con una quota politica di alieni, fantasmi e una gamma infinita di mostri e mutaforma. Si può trovare di tutto – letteralmente, eh – sotto il classico logo a W, a cui un designer sottopagato ha aggiunto un paio di canini vampiri per l'occasione.
C'è una quantità praticamente infinita di libri dagli intriganti titoli mono-parola (Torment, Crescendo, Forbidden e Halo, tanto per fare un po' di esempi) ma anche eleganti esempi di riferimenti alla Thatcher – probabilmente involontari – in Iron Queen.
Ma la parte peggiore della è decisamente l'ampia gamma di rimaneggiamenti dei classici.
Quando gli editori si vergognavano a stipendiare gente per queste baggianate, hanno ingaggiato una manica di grafici disperati e hanno rifatto le copertine dei classici in modo che assomigliassero a Twilight.
Mi è passata davanti la versione bianco-rosso-nero di Cime Tempestose, insieme ad una copia di Amleto con attaccato un adesivo che diceva “The ultimate brooding teenager!” (Il teenager più tormentato di tutti).
Immaginatevi una preadolescente con i bollori per Edward Cullen, seduta sotto il suo poster grandezza naturale di Robert Pattinson che cerca di capire cos'abbiano in comune Eddino e Amleto. Ecco, infatti.
In altri casi, della gente senza alcuna dignità è stata pagata per venire fuori con delle perle da brivido: ci sono i titoli famosi come Pride, Prejudice & Zombies e Sense, Sensibility & Sea Monsters, ma anche volumi imperdibili Frankenstein's Girl e Jane Slayer. Oppure volete fare finta di non sapere neanche che esistono, e vi capirei perfettamente.
“E' diventata una vera mania dopo Twilight” ha detto Alex, commessa di Waterstone's apertamente anti-Cullen. “Non posso credere che abbiamo un'intera sezione di questa roba” ha confessato mentre mi tirava fuori una copia della sua disgrazia letteraria preferita, Jane and the Damned, e leggeva ad alta voce il sottotitolo: 'It's more than her wit that's biting' (non è solo la sua arguzia a mordere).
Onestamente, l'unica cosa che volevo mordere era la testa dell'autore.
La morale è che forse in Italia la situazione non è ancora così devastante, ma dal resto del mondo stanno facendo di tutto per rincretinire la generazione che viene dopo la nostra.
Ho cercato disperatamente, prima di trovare tracce di normalità – Guida Galattica per Autostoppisti, o cose tipo Jacqueline Wilson o Philip Pullman o Terry Pratchett – ed è stato difficilissimo.
Io in seconda media leggevo ancora Bianca Pitzorno perché ero un po' lenta, ma a quanto pare mia cugina per il suo compleanno vuole la serie completa di The Vampire Diaries.
Vorrei non chiudere questo post con una frase alla “ah, quand'ero tredicenne io” e “sui giovani oggi ci scatarro su”, ma mi sembra che il tutto si stia sempre più uniformando verso il basso.
Se neanche i libri possono più aiutare ad uscire dall'abisso di ignoranza agghiacciante in cui stiamo precipitando, io comincerei a preoccuparmi un pochino.

giovedì 24 marzo 2011

Lady Gaga is part of This-Endless-Revival

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Gaga Haters LTD

Non so chi di voi abbia visto la performance pre-fama di Stefani Germanotta a Mtv Boiling Points. Ecco, per farla breve, c'è lei che si incazza artificialmente con una cameriera scazzona che le restituisce il piatto che le aveva tolto mentre lei era uscita a fare una telefonata, ma con un bel tovagliolo di carta appallottolato sopra. Stefani è la prima tra i concorrenti a mandarla a stendere. Tra le sue prime comparse in video c'è anche una scena nella serie tv – giustificabilmente di culto - dei Soprano, in cui il giovane A.J. organizza una festa di vandalismo nella piscina della scuola. Inutile dire che lei è una delle invitate. Viene ripresa – avrà sedici anni – mentre ride con una bottiglia in mano.
Il termine Haus of Gaga potrebbe indicare un'avanguardia artistica, non fosse altro per una poco coerente scelta linguistica. Credo che il termine più appropriato sia House of Gaga, analogamente alla House of Deréon di Beyoncè, a definire una qualsiasi casa di moda, con la differenza che apparentemente è Beyoncè a sfornare vestiti e non il contrario.
Credo sia proprio questo il punto. La House of Gaga è un'industria assoggettata al successo di un singolo quanto i migliori ministeri propagandistici dittatoriali. Chiunque abbia un minimo di gusto musicale – che in una certa misura non può non essere dettato dalla conoscenza anche intuitiva della sua storia – non può che esserne disgustato. Qui inserisco un period concettuale enorme, a dire che ci sono anche artisti della contemporaneità che non ritengo essere meritevoli di comparazioni con altri - del passato ma anche del presente – come si fa in quelle parentesi a volte poco plausibili nelle recensioni musicali qui in giro sul web, generando di solito vorticose rotazioni dei bulbi oculari nel lettore erudito.
C'è stato anche un tempo – e in buona parte c'è ancora - in cui la mancanza totale di contenuto e/o di capacità di un artista era compensata dalla sua - altrettanto abilmente orchestrata - parvenza scenica. Questo restava confinato nella sfera dell'implicito, e chi non era condannato al possesso di un senso critico neanche se ne accorgeva. Questo è un pudore andato perso, a mio parere uno dei pochi che sarebbe stato il caso di mantenere. Lady Gaga che dice “voglio solo essere la star più famosa del mondo” facendone un proposito concreto è uno schiaffo alla dignità degli artisti non dotati di un tale solidissimo apparato iperpromozionale e svela in maniera anche odiosamente parziale un mondo, quello dell'industria delle popstar globali, che per qualsiasi essere pensante non è nient'altro che deprimente. Lo è altrettanto la pretesa di dare credibilità warholiana a questa presunta riflessione sulla fama, per cui lancio un secondo period maggiore del primo, lasciando a tutte le persone di buonsenso l'onere di giudicare se questo mero reinvestire il guadagno di un buon investimento iniziale sia tacciabile di una pretesa artistica maggiore di quella espressa nel film Zoolander.
Per farmi un'idea iniziale di Lady Gaga ho fatto quello che ogni suo fan dotato di buonsenso dovrebbe fare. Ho guardato una sua intervista televisiva. E magari più di una. Non ci vuole una scienza per capire che la ragazza non ha una grande personalità comunicativa da accompagnare al suo outfit. Confido nella possibilità che presto si smetta di credere al fatto che l'abito sia espressione di personalità per un individuo di tal fatta, per il quale si potrebbe tranquillamente affermare che sia l'abito ad aver fatto la monaca.
Mi rendo conto che sto facendo il gioco scemo di Lady Gaga quando scrivo nel ruolo di suo detrattore. E' puramente funzionale alla sua esistenza di presunta costante trasgressività, seppur stolidamente giustificata da frasi fatte da dentista tipo “Suona il piano da quando aveva quattro anni”, che comunque non è dotata di alcun senso. Per questo sarebbe stato più coerente non scriverne, per non fare neppure da amplificatore involontario. Non faccio che tradire una mia sporadica fiducia, penso a volte con qualche inspiegato candore che anche lei condividerà il destino delle altre artiste della sua risma e che nessuno si ricorderà di lei come espressione di qualcosa, se non facendo spallucce come per una cosa ovvia.

mercoledì 23 marzo 2011

Ho fatto le elementari del libro "Cuore"

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O anche di come la pedagogia non sia una scienza esatta e la Montessori sia passata inosservata per decenni in alcune enclave del piccolo ducato.

Quando ancora frequentavo le lezioni universitarie per la laurea specialistica (oh mio dio come sono vecchia!) ho seguito per alcuni mesi un corso di "Letteratura per l'infanzia e l'adolescenza", il massimo che il mio piano di studi offrisse, a livello di materia pedagogica, nell'offerta formativa per una futura italianista. Durante il corso ci sono state illustrate una serie di teorie volte a rendere i bambini e i ragazzi appassionati lettori, per insegnare divertendo e stimolando le loro menti e senza mortificarli o farli entrare troppo presto nel duro sistema che regge le sorti del mondo adulto. Tutte cose apprezzabilissime e sulla cui sacrosanta verità io non avrei messo becco se il professore non si fosse accanito nel sostenere che, seguendo metodologie differenti, si sarebbe andati incontro ad un sicuro fallimento pedagogico e successivo naufragio della carriera scolastica dei giovani virgulti. Perché mi sono sentita così tanto chiamata in causa da mettere a dura prova il mio self-control per evitare di venire massacrata all'esame? Perché io ho fatto le elementari del libro "Cuore".
Nessun metodo di "approccio lento" alla didattica, nessuna gradualità fra il disegno e il gioco e i primi rudimenti di scrittura. Fin dai primi giorni mi sono ritrovata alla lavagna a fare "le aste". Alcuni di voi non sapranno nemmeno in che cosa consista questa barbara pratica e dunque vado a spiegare, novella etologa o storica della contemporaneità. Il lavoro consisteva nel ripetere all'infinito sul foglio di un quaderno, oppure alla lavagna appunto, una serie di aste: l'equivalente dello slash oppure di un manico d'ombrello. Variava di volta in volta. Aste, su aste, su aste. Il piano pedagogico prevedeva l'uso iniziale della matita per poi passare alla biro (omologata e rigorosamente Pilot blu punta fine, marca che mai più in vita mia ho comprato per una sorta di rifiuto post traumatico). I bambini più bravi passavano per primi alla biro, i più somari dopo, i casi umani, come la sottoscritta, ci sono arrivati per ultimi dopo mesi e una discreta umiliazione. "No, tu continua a matita" detto davanti a tutti è frustrante, soprattutto quando stai ricopiando per la milionesima volta delle aste. Poi è stata la volta dei timbri. Uno dirà "belli i timbri, si possono colorare!": si, in parte vero, ma il timbro della lettera A-B-C-Q-F o dir si voglia, posizionato in cima alla pagina del quaderno in posizione centralissima, prevedeva poi l'estenuante copiatura di una parola che avesse come iniziale la lettera incriminata. In rosso la lettera iniziale, in blu le seguenti. Ape Ape Ape Ape Ape. In bella grafia, non basta che si capisca, e senza sbordacci. Io non ero una brava bambina. Diciamo che non ero satana, ma nemmeno tanto incline allo stare cinque ore a scuola e men che meno ad abbracciare la disciplina a me imposta dalla maestra (rigorosamente unica). Trovavo stupido ripetere allo sfinimento i nomi dei disegni appesi alle pareti con la lettera corrispondente all'iniziale del nome. "A...albero! Bene. B...barca! Bene. C...casa! Benissimo. G...Micio! No! Ma come ti viene in mente?". Sapevo benissimo che G stava per gatto, ma era umiliante, omologante, frustrante proseguire all'infinito il giochino, senza mai uno stimolo differente, qualcosa che potesse far emergere un pochino di quello che ci piaceva all'interno dei muri della classe. Ricordo distintamente che in classe non c'era nulla che mi piacesse. Amavo l'abaco, ma stava sempre chiuso nell'armadio, lontano dalle mani che potevano eventualmente giocarci nelle pause. Amavo i miei regoli, che dovevano però stare sempre ben chiusi nella scatola sotto al banco. Ero una bambina che adorava la televisione e quella che l'aula aveva in dotazione per i filmati educativi stava sempre coperta da un telo. "Niente film" era il dictat. A differenza di quanto avveniva in altre classi di miei coetanei. Noi fermi, "braccia conserte", come diceva la maestra. Dubito che oggi, se si dicesse a un bambino di prima elementare "Stai con le braccia conserte", capirebbe quello che gli si sta chiedendo. Ed è giusto così. Ma io vivevo nel libro Cuore. Matita rossa e blu per le correzioni, nessun atteggiamento materno, lo stimolo (o supposto tale) della prima della classe che veniva sempre presa ad esempio e lodata pubblicamente, il banco della vergogna di fianco alla cattedra. Insomma, ho le mie buone ragioni per dire che i concetti impartiti durante le lezioni universitarie erano quantomeno relativi se sono poi finita a fare un dottorato? Ho già accennato al fatto che la mia scuola era una scuola cattolica? No? Mi è in qualche modo servito? Beh...nelle prossime puntate, se avrete la pazienza di leggermi, magari avrò modo di parlarne.

martedì 22 marzo 2011

Aspettando il capolavoro: "21" delude, ma la fiducia in Adele non viene meno.

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Ho conosciuto Adele* ai tempi di “Chasing pavements” e del suo album di debutto, 19. Mi aveva molto stupito scoprirla mia coetanea: ad una prima vampata di invidia (lei aveva quella voce magnifica e io, quasi per contrappasso, non avevo nulla da offrire al mondo se non della lunaticità tardo adolescenziale), fece seguito un interessamento più serio e persino della discreta stima. Mi accorsi infatti quasi subito di come Adele fosse un’anomalia rispetto alle popstar anglofone under 30 da me conosciute fino ad allora: si presentava in pubblico anche senza trucco, non faceva una mania dei carboidrati assunti giornalmente, ma si dedicava piuttosto a ciò in cui era evidentemente più abile: cantare.

Il primo album uscì nel febbraio del 2008, quando Adele – come me – non aveva ancora celebrato i suoi vent’anni, e per questo venne intitolato 19. Oltre a “Chasing pavements” il disco conteneva molti altri pezzi meritevoli, ma tra tutti spiccavano il pezzo di apertura (“Daydreamer”) e quello di chiusura (la melanconica “Hometown glory”): una ballata acustica ove si descrive in modo commovente un boyfriend “ideale” sotto molti aspetti (per ammissione di Adele stessa i riferimenti sono tutti per un ragazzo di cui era stata perdutamente innamorata, ma con il quale le sarebbe stato impossibile avere una vera storia perché lui era bisessuale) e un pezzo in cui la cantante rievoca i suoi più cari ricordi di Londra, sua città natale (“Is there anything I can do for you dear? Is there anyone I can call?”/ “No and thank you, please Madam. I ain’t lost, just wandering”).


Poi venne il secondo album. Uscito nel gennaio di quest’anno, porta il titolo di 21 perché quella era l’età che Adele aveva quando iniziò a lavorarci (a questo punto immagino non sia così azzardato ipotizzare che anche un eventuale terzo album possa avere come titolo un numero a due cifre, verosimilmente compreso tra 23 e 30). Dichiarato album dell’anno dal tabloid britannico The Sun (!) “21” ha raccolto grandissimi consensi non solo nel Regno Unito, ma anche nel resto d’Europa, negli States e nella remota Nuova Zelanda. Qui da noi resiste stabile tra i quindici dischi più venduti, in ottima compagnia tra album sfornati di fresco dalla Factory di Maria De Filippi, Sanremo e dalla nuova ghenga di Liam Gallagher.
Attacchi di tosse convulsi e accesso di risa isteriche. Sorvoliamo sui gusti musicali dei connazionali, và.


Nonostante le cifre parlino di un chiaro successo di pubblico e critica, a me “21” non piace. O meglio, non è il sequel che mi aspettavo. Diamine, questa ragazza elenca tra i suoi miti Etta James, Peggy Lee, Billy Bragg e Jeff Buckley; con la voce che ha dovrebbe starsene a cantare il Blues dalla mattina alla sera e a consumare i condotti lacrimali di chiunque possa avere la fortuna di stare ad ascoltarla… e invece che fa? Mi caccia pezzi come Don’t you remember, che sembran scritti apposta per pusillanimi come Taylor Swift. Sgrunt.

Da parte mia avrei tanto voluto che il nuovo album fosse un unplugged. Niente fa risaltare una bella voce come una genuina performance acustica. “19” mi aveva fatto troppo ben sperare, evidentemente.
Tuttavia non tutte le tredici tracce di cui si compone l’album** sono da scartare. Vi è una triade, in particolare, che merita dell’attenzione. Mi riferisco alle consecutive Lovesong (cover dei Cure), Someone like you e If it hadn’t been for love (cover dei meno conosciuti Steeldrivers). Evito volutamente il singolo di punta dell’album (“Rolling in the deep”) che, sebbene accompagnato da un delizioso videoclip, durante l’ascolto mi ha lasciata più perplessa che mai (troppo Duffy; così come altre mi sembravano troppo à la Winehouse, mentre Adele Laurie Blue Adkins non è né una né l’altra).
La triade sopracitata, dicevo, sembra fortunatamente restituirmi la Adele-non-ancora-ventenne del primo album.
- La cover di “Lovesong” non stravolge troppo l’originale, semmai la rallenta giusto un pelo. L’originale di Robert Smith è di indubbio pregio, tant’è che molti fan della vecchia guardia potrebbero considerare oltraggioso il fatto che sia stata coverizzata (non li biasimo: io stessa approccio sempre con scetticismo le cover delle canzoni che amo). Ciononostante ritengo che l’interpretazione di Adele sia comunque molto meritevole: la cosa che mi piace di più, in tutto ciò, è che la sua voce risulta talmente credibile da poter fare tranquillamente le veci di quella di Smith. Usando una delle similitudini più ardite (leggi: cretine) della mia vita… avete presente quei libri per ragazzine che se letti in un verso raccontano “La storia secondo lei” e se letti nell’altro, dopo aver girato il libro, rivelano “La storia secondo lui”? Beh, la cover di Adele mi ha fatto pensare a “Lovesong” come ad un testo doubleface di cui ora conosciamo e il modo in cui ne parlerebbe un innamorato e quello in cui lo farebbe un’innamorata.
- “Somebody like you” nelle intenzioni dell’autrice dovrebbe essere la canzone-sintesi dell’intero album: la spinta creativa del tutto sembra infatti essere stata la rottura con il suo ultimo ragazzo (a tal proposito Adele ha dichiarato che proprio nei momenti di maggiore difficoltà emotiva la sua vena creativa riprende a pulsare; paradossalmente, osserva lei stessa, cercare di procacciarsi solo relazioni fallimentari potrebbe divenire quasi una scelta di vita per garantirsi una carriera duratura). Nel testo, Adele si immagina di rincontrare in età adulta questo suo ex ragazzo, scoprendolo però ora felicemente sposato. Non c’è rancore, né frustrazione. Semmai a farla da padrona è la confusione tipica della fine di una relazione, quando ci si accorge che l’altro è riuscito a passare oltre, mentre a noi -nonostante sia passato del tempo- risulta troppo doloroso anche solo pensare di provarci (ma l’affetto è ancora tale per cui l’unica cosa che si può fare è augurare ogni bene all’altra persona, sperando solo che non getti nel dimenticatoio i ricordi dei momenti passati insieme). Il pezzo centuplica la sua efficacia se eseguito dal vivo: i Brit Awards di quest’anno ne danno una testimonianza ottima; l’impeccabile esibizione di Adele ha conquistato ogni cuoricino spezzato presente in sala. A me ricorda in qualche modo il candore di “Hometown glory” e, sebbene vada un pelo oltre il livello di romanticume da me tollerato, dopo ripetuti ascoltimi ha fatta convinta. Parte della magia immagino sia da ricondurre alla linea di piano che segue il bel canto della giovane londinese.

- Ma forse il mio pezzo preferito, all’interno di questa triade, è “If it hadn’t been for love”, dove Adele finalmente dismette i panni della ragazza fragile cui la vita non gliene ha mandata una giusta per decidere di irruvidire la voce (ricordando ai più nostalgici una giovane Wanda Jackson) e iniziare a parlare di autostop, natura nemica, delitti passionali e gelide prigioni. Proprio un bel quadretto, già. Si tratta ancora una volta di una cover, ancora una volta ben interpretata da Adele che mostra di saperci fare anche col Bluegrass. È un vero peccato che l’album non si concluda qui, ma prosegua con un’ultima altra traccia, “Hiding my heart” (cover di un brano di Brandi Carlile senza arte né parte). Gli artigli sfoderati poc’anzi si ritraggono e torniamo a sentire in lontananza il rumore di cuori un tempo pulsanti di vita, ora distrutti. Umpf.
Purtroppo quelle di cui sopra sono solo 3 canzoni su 13 (nella versione standard del disco 2 su 11) e, a voler girare il dito nella piaga, 1 inedito contro 2 cover. Per dirla alla Barney Panofsky, cazzo cazzo e cazzo.
Ciò mi preoccupa assai, soprattutto perché questa ragazza potrebbe veramente fare di più di così. Mi avvilisce veder dilapidato tanto talento per delle canzonette che sarebbe un eufemismo definire insipide. Ma non voglio scoraggiarmi: continuerò a fare il tifo per Adele, nella speranza che prima o dopo sforni anche lei il suo White Album. Forza classe 1988, keep the dream alive!

Ps: guardatevi quest'esibizione e capirete perché insisto tanto.


*si pronuncia /ʌˈdɛl/
** mi sto riferendo alla limited edition di “21”, dove “If it hadn’t been for love” e “Hiding my heart” compaiono come bonus tracks.

lunedì 21 marzo 2011

Se non ora quando #150

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Negli ultimi giorni di festività Torino è stata piena di pioggia. Come accade spesso da queste parti, appena la festa ha voltato l'angolo la pioggia ha smesso di cadere regalandoci persino il sole. Ciò che mi resterà nel cuore della serata del 16, chiamata dalle autorità notte tricolore, per cui le strade del centro sono state intasate da una massa enorme di gente di vario tipo dal volto comunque super-felice, sarà soprattutto quel ragazzo che vende gingilli davanti a Palazzo Nuovo, riconvertito per l'occasione in venditore di tricolori, come del resto tutti i suoi colleghi del centro, paradossi che camminano ma alla fine neanche più di tanto. Ha preso più pioggia in testa lui di tutti quelli che si sono accalcati davanti al palco di Piazza Vittorio messi insieme. Si è preso anche le male parole della gente stronza e della gente in-felice a cui cercava di rifilare una bandiera del loro paese - senza fare una piega.
Per coloro che hanno avuto la fortuna di non assistere alla diretta su raiuno con baudo e vespa ad un certo punto della serata è stata accesa di un triplo neon tricolore la Mole Antonelliana, generando un boato notevole - lo dico io che c'ero - da parte di tutti coloro che stavano lì sotto, con gli ombrelli inclinati, ad aspettare quel momento. Vedere la diretta di un evento pubblico torinese su raiuno dopo essere tornati dalla calca piovosa del centro storico significa scrollarsi di dosso l'acqua ormai infiltratasi ovunque e poi ammettere che si vede molto meglio in televisione, affermazione che precede generalmente lo spegnimento dell'arnese. Anche perchè se uno vede un evento simile presentato da quei due non è che ne possa fare a meno, di disprezzare tutto l'insieme. Perché la festa fosse coerente doveva esserci una nota di sdegno. Di qui l'affezione tipica della nostra comune nazionalità, per cui uno è patriota se dice di sognare un'Italia migliore, mentre gli altri hanno optato per non sognare niente. A parte l'espatrio, ovviamente.
In questa città non ci sono mai stati dubbi sul fare la festa o meno. Gli animi erano pervasi da uno spirito di Se Non Ora Quando, nel senso che si possono avanzare dubbi su quanto il paese sia degno di festeggiamenti - vd. dibattiti televisivi antirisorgimentalisti versus storici cazzuti - come del resto se ne possono avanzare su qualsiasi cosa, ma alla fine nessuno è proprio sicuro che ci sarà, al bicentenario. Immagino che ci sia un sacco di gente pentita di non aver mai festeggiato le nozze di carta, ecco. Nelle ultime due settimane persino la riottosa via Po è stata riverniciata di fresco. Sembra un'inezia, intanto certe cose aiutano a sentire la festa. Ho avvistato tra tanta gente qualcuno che conoscevo e non vedevo da anni - ma senza salutare nessuno - davanti ai negozi chiusi moltissime bancarelle e i bar storici - uno su tutti, Fiorio - rigorosamente aperti. Nel tentativo di ripararmi dalla pioggia ho anche scoperto una bella libreria, aperta fino a sera tardi.
Avanzando a spallate tra la gente si trova un ambiente adatto a riflessioni su quanto le patrie esistano al di fuori dell'anima del singolo. Le conclusioni a cui si giunge possono essere influenzate da quello che ti capita sul momento, se uno ti pesta i piedi o se una signora con gli occhiali si abbassa per aiutarti a recuperare l'ombrello. Ma anche se finisci in una pozzanghera e non hai che te stesso da biasimare.

venerdì 18 marzo 2011

Dietrismi nucleari

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C’è una fastidiosa quanto necessaria tendenza che sta penetrando i cervelli degli Italiani. Coloro che ne sono sprovvisti non rientrano in questa mia analisi, quindi VOI che leggete siete inclusi.

Dicesi:

Abituati all’arte del “fatta la legge, trovato l’inganno”, assuefatti alle notizie di truffe inimmaginabili (a proposito: vi ricordate quei medici che spacciavano per vivi i propri clienti deceduti pur di ottenere più soldi?), entrati a contatto con l’abilità del “passare avanti” sin dalla più tenera età (il direttore dell’asilo era amico dei miei...) siamo diventati i contorsionisti dei collegamenti contorti, gli equilibristi tra i fattacci più biechi, mostri paranoici che si nutrono delle situazioni grigie. (senza offesa eh)

Se chi scrive è affetta in modo quasi patologico da quest’ansia di venire fregata (specialmente dai politici e dalle pubblicità), tanto da cedere talvolta a inconsistenti cospirazionismi, c’è da ammettere che un po’ di sano scetticismo non guasta. Nella giungla, è meglio avere i denti.
Ora. Non so se i miei neuroni abbiano cominciato a produrre sinapsi a caso (se metti insieme politica e pubblicità, arrivederci), ma c’è qualcosa di molto losco in tutta la questione del nucleare.

Sarò anche “macabra”, come direbbe la Prestigiacomo, a scrivere di nucleare in questi giorni di terrore per il Giappone, ma non si può non pensarci. E’ come se a tuo cugino cadesse in testa un elefante e non ti potessi arrabbiare con chi trasporta gli elefanti con le mongolfiere (ehm… similitudini migliori prego?)

Perché il Governo sostiene così tanto il “Ritorno al Nucleare”? Perché nel momento in cui tutti abbassano le orecchiette e fanno marcia indietro l’Italia (o chi per essa) continua a sbandierare la propria testardaggine?
In effetti, coerenti nel loro piccolo lo sono: con un simpatico decreto legge datato 3 marzo hanno annullato gli incentivi al fotovoltaico a partire da giugno. In realtà, oltre ad annullarli, hanno previsto dei “nuovi” incentivi, e rinviato la quantificazione a fine aprile.
In pratica, però, una cosa del genere equivale ad annullarli, in primo luogo perché si presume che i “nuovi” incentivi siano minori (da una nota ufficiale di Palazzo Chigi si legge che il decreto sarebbe stato fatto per "diversificare il nostro mix energetico, promuovendo quindi la produzione da fonti rinnovabili ed il ritorno al nucleare") e in secondo luogo perché nessuno adesso si metterà a costruire impianti fotovoltaici non sapendo se rientrerà negli incentivi o no.
Insomma, è stato bloccato un meccanismo che funzionava benissimo, quello del Conto Energia, plaudito da tutti e che aveva permesso un boom del mercato fotovoltaico in Italia (grazie al sistema di incentivi siamo arrivati ad essere secondi in Europa).

Poi c’è un altro fatto: la famigerata pubblicità del Forum Nucleare Italiano.

E qui la mia parte dietrista si fa le pippe.
Questa pubblicità, bloccata dal Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria perché ingannevole, finge di offrire un punto di vista imparziale sulla questione sì/no al nucleare, nascondendo (ma neanche tanto bene) una certa, chiamiamola, “preferenza” per il sì.
Un tono di voce cupo piuttosto che uno più rassicurante, l’utilizzo del colore nero per gli oppositori all’atomo, così come una formulazione più idiota e vaga delle frasi di questi ultimi… qui si è seguito un corso di Marketing, addirittura.


Il fatto che la campagna “penda” dalla parte del sì non è poi così strano, dato che l’azionista di maggioranza di Forum Nucleare Italiano è l’Enel, ed è accompagnata da amicici tipo Alstom Power, Ansaldo nucleare, Areva, E.ON, EDF, Edison, Federprogetti, GDF Suez, Sogin, Stratinvest Energy, Techint, Technip, Tecnimont, Terna, Westinghouse.
Tutte aziende che avrebbero interesse all’installazione delle centrali e alla vendita dell’energia prodotta, e che beneficerebbero, insieme ad altre, del 55% circa dell’investimento previsto dal Governo.

Di quanto sarà questo giro d’affari quindi?
Mah, così, cifre da niente, appena la metà di una trentina di miliardi di euro… E’ addirittura prevista la nascita di una “filiera del nucleare” composta da circa 550 imprese, a seguito di tale investimento!
Ultima notizia: Enel conferma, inoltre, che ci metterà anche del suo: investirà in Italia tra i 300 e i 400 milioni di euro. E se investe così tanto, figuriamoci quanto si aspetta di ricevere.

E che vuoi che siano 6 milioni di euro campagna pubblicitaria per il Forum Nucleare quando si parla di queste cifre?

(e ora finalmente lo posso dire…)

Gli sarebbe quasi quasi convenuto comprarsi anche qualche politico. Sono in saldo, ultimamente.

giovedì 17 marzo 2011

Rosa politica...

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Sabato pomeriggio, ore 19.00, arranco a piedi verso casa. Ho solo un'ora per arrivare, farmi una doccia per darmi un aspetto umano ed uscire, perché, nonostante tutto, ho ancora un'età per cui è considerato socialmente disdicevole collassare sul divano alle nove durante il week end. Non volendo distruggere quella parvenza di vita sociale che mi rimane, lotto contro l'inerzia e cammino spedita verso casa. Vengo da un presidio in difesa della Costituzione e della scuola pubblica. L'ennesimo presidio. Pochi giorni fa ero a distribuire mimose in occasione del tanto deprecato otto marzo, cercando di far capire alle mie socie più giovani, che sculettavano sotto tre metri di cerone per le vie del centro, che non si trattava di una ricorrenza dedicata alla fruizione di spogliarelli maschili e cene con sbronza molesta fra amiche. Non so se sia servito, ma c'ero. I miei sabati sono costellati di banchetti per la raccolta delle firme, presidi contro gli abomini dell'amministrazione comunale, manifestazioni, mattinate trascorse alla scuola di politica. Ebbene sì, la scuola di politica, come negli anni Sessanta. Il venerdì sera non faccio tardi e creo turbamento nei miei amici quando alla domanda "Ma te ne vai già?" rispondo che sì, la mattina dopo mi devo alzare per un corso sulla gestione del bilancio. Io, laureata in lettere che se le danno il resto sbagliato al supermercato ringrazia e se ne va accorgendosene, se mai, a casa, perché fa di conto col pallottoliere. Ci si alza, con gli occhi pesti e il senso di morte imminente, e si va a scuola. Non che le serate infrasettimanali siano molto meglio: riunioni e incontri si affastellano come gli strati di una millefoglie. In tutto questo mi sono accorta di una cosa: sono un panda. Non in quanto giovane che fa politica, ma in quanto donna giovane o in quanto donna punto che fa politica. Mi riallaccio al sopracitato otto marzo. In tanti, fra i politici, si sono sperticati in tale occasione con lodi sulla figura della donna, con panegirici sul suo ruolo sociale e la necessità della valorizzazione femminile. Ebbene? Che cos'è stato fatto fin ora per valorizzare davvero le donne? Senza rappresentanza, si sa, qualsiasi categoria sociale può strillare e agitarsi, ma non otterrà mai un cambiamento. Perché l'Italia è un paese di vecchi e non viene mai varata una riforma, approvata una legge che migliori davvero la condizione dei giovani?
Perché non ci sono giovani seduti nei luoghi di potere in grado di portare avanti le loro battaglie "ad armi pari". Lo stesso può dirsi delle donne. Lasciamo perdere gli indecorosi esempi di soubrette (per essere gentili e politicamente corretti) attualmente assise fra le più alte cariche e prive di una qualsiasi competenza oltre che, spesso e volentieri, del dato umano necessario per occuparsi del bene comune, e pensiamo alla donna "impegnata", che con correttezza e competenza compie, non senza fatiche, il cursus honorum per arrivare a detenere un qualche potere. Che cosa ci troviamo di fronte?
Spesso donne mascolinizzate, non nel senso più vile del termine, ma per quanto riguarda l'approccio alla politica, alla vita di tutti giorni e, soprattutto, per l'atteggiamento con cui si pongono verso l'esterno. Aggressive e secche nel modo di affrontare un dibattito, attente a non far trapelare nulla che ricordi la loro femminilità, nessun dato particolare di sensibilità, nessun possibile appiglio per chi potrebbe accusarle di essere troppo "materne" in un mondo "da uomini". Spesso sono donne che rinunciano a una vita affettiva normale, cosa che non accade invece ai colleghi uomini, perché a loro non è richiesto di essere a casa per ora di cena o non risulta strano se, appena posata la forchetta, corrono fuori per l'ennesimo incontro. I rari esempi di politiche con una sistema di relazioni "normale" sono resi possibili dalla presenza di compagni illuminati e progressisti al loro fianco. Se ne trovano davvero pochi in giro, anche fra i più giovani. In tutto questo si predicano quote rosa a cui non viene dato seguito: sì, perché le quote rosa sono necessarie, diversamente, se a decidere le candidature e le cariche interne dei partiti sono i dirigenti, non ci sarà motivazione per cui questi ultimi decidano di dare il posto a una donna ( a meno che non si sia in presenza del sopracitato esempio di soggetto illuminato... raro, molto raro). Le donne fanno anche un pò paura. Nella mia esperienza ho sentito donne rivendicare il diritto a "riunioni brevi ed efficienti" che permettano di andare a casa ad orari consoni per la vita di chiunque: basta con gli incontri alle sette di sera o a quelli che finiscono a mezzanotte di un giorno lavorativo. Ho sentito donne chiedere di poter avere uno spazio dove lasciare a disegnare i figli mentre loro discutevano di politica. Ho sentito donne proporre nuovi metodi di approccio alla protesta, meno "istituzionali" e più creativi. Ecco perché le donne fanno paura: minano il millenario e consolidato schema maschile della politica. Io personalmente non credo che una donna faccia politica meglio o peggio di un uomo. Penso però che possa avere un approccio differente, così come diverse categorie sociali hanno approcci differenti ad una medesima tematica. Rinunciare a questo pluralismo sarebbe una follia. Forse è questa la risposta alla domande sul perché faccio politica: per un esigenza di rappresentanza e di cambiamento. Il resto è fuffa. Non penso che "le donne in parlamento" porterebbero la rivoluzione, ma abbiamo provato per centinaia di anni il governo dei pochi al maschile. E' andata come andata, poteva andare peggio... ma tentare un miglioramento non penso nuoccia a nessuno. O forse a qualcuno si?

mercoledì 16 marzo 2011

Montag oder Mittwoch #0

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Il 15 aprile 2010 i cieli europei furono completamente ricoperti da una nube enorme e minacciosa. Un vulcano islandese dal nome impronunciabile e, fino a quel momento, sconosciuto, era improvvisamente sulla bocca di tutti. Probabilmente il suo nome era anche seguito da qualche imprecazione, poiché le ceneri che da lui fuoriuscivano avevano paralizzato il traffico aereo.
Tutto ciò causò enormi e variopinti disagi: viaggi annullati, concerti rimandati, matrimoni a cui mancavano gli invitati e lunghi viaggi in treno per tornare a casa dai luoghi dove magari si era pensato di stare solo per un week-end.
Poche ore prima della Grande Esplosione di Cenere, il mio aereo era partito tranquillo ed era atterrato altrettanto comodamente. La famiglia intera mi aveva amorevolmente accompagnata all'aeroporto di Bergamo. Appena una settimana prima festeggiavo la mia inutile laurea in Scienze Politiche ballando i Mùm sul mio prato in collina, bevendo Montenegro (amaro di cui allora facevo abbondante uso, ignorando la sua irreperibilità in terra crucca) e abbracciando gli alberi (letteralmente). Come potete facilmente immaginare, una settimana prima ancora dissertavo la mia scarna tesi di trenta pagine e salutavo la cara, grassa, rossa e dotta Bologna che per tre anni e mezzo mi aveva coccolata e allevata.
Nei giorni precedenti la mia partenza mi ero spesso chiesta se alla fine su quell'aereo ci sarei salita oppure no. In fondo sulla mia coscienza pesavano solo i 14 euro di un volo low cost. Appena più difficile sarebbe stato salvare la faccia dopo tutto quel parlare di prendere, mollare tutto (ma tutto cosa?) e partire. Ma chi avrebbe potuto biasimarmi? Con quale diritto?
Alla fine sì, partii per Berlino con quindici chili di vestiti e un futuro a breve termine completamente da scrivere.
Oggi sono a Berlino da esattamente undici mesi. Ho da poco cominciato un nuovo corso di tedesco e mi hanno piazzato all'inizio del livello C1.
Penso sempre che in questi momenti vorrei tanto trovarmi davanti la mia professoressa di tedesco delle medie. Quella antipatica che durante l'ora di ricevimento aveva detto a mia madre che nella vita non avrei combinato assolutamente nulla. Quella per cui, alla fine delle medie, giurai che mai e poi mai avrei continuato a studiare tedesco anche alle superiori. Vorrei trovarmela davanti e farle capire che forse non ero così da buttare.
Ricordo ancora quando cominciò a spiegare il nominativo e gli altri casi e io le chiesi cosa fossero. Lei mi guardò e mi rispose: “Richelli, proprio tu, che l'anno prossimo vuoi andare al Liceo Classico, mi chiedi cos'è il nominativo?” Ovviamente si guardò bene dallo spiegarmelo e questa scena dalla stupidità cristallina mi appare surreale ancora oggi.
Qualche sera fa un'amica mi ha chiesto: “Ma è per colpa di Berlusconi che ti sei trasferita a Berlino?” e non sapevo bene come rispondere. Nì, mi è venuto da dire. Quello stronzo probabilmente non merita nessuna pietà, ma non è altro che la punta di un iceberg. Lui, come la mia professoressa di tedesco, e come i professori della mia professoressa di tedesco ancora prima, fanno parte di un sistema enorme, complicato e profondo che a mano a mano sta distruggendo non solo un paese, ma anche tante piccole speranze e potenzialità, tanti piccoli futuri. I nostri.
Quando sono partita non ero la più incazzata dei miei coetanei. Ma ad essere tanto incazzati forse non si va da nessuna parte. Al contrario, bisogna fare qualcosa.
Io ho cambiato aria, ma spero un giorno di poter tornare a casa e tentare di cambiare le cose e far respirare anche nella vecchia e immobile Verona un pezzettino della Luft che c'è qui. Intanto ve ne racconterò una parte.
Il mio “diario” o le mie riflessioni da Berlino si chiamano “Montag oder Mittwoch” perché quando studiavo tedesco alle elementari mi facevano sempre scrivere la data, per farmi imparare i giorni della settimana. Avendo però avuto per anni lezione solo due volte alla settimana, per lungo tempo ho saputo dire solo “Lunedì” o “Mercoledì”. Uscirà un po' quando mi pare, ma sempre di lunedì o di mercoledì.

martedì 15 marzo 2011

Osservare anche a occhi chiusi: un'intervista a Elisabetta Benfatto

4 commenti

Conclusa la chiacchierata ho subito realizzato quale sarebbe stata la maggiore difficoltà da affrontare, ragione per la quale, intervistare sarà per me attività centellinata e di parco dosaggio.

INGABBIARE PENSIERI. Ingabbiare pensieri personali è già di per percorso tortuoso. Quando si tratta poi di cercare di catturare e riprodurre quelli degli altri, beh, diventa persino ansiogeno.
Concordate le premesse, mi dispongo a darvi qualche informazione sull'intervistata.


Sto per avere una fertile conversazione con Elisabetta Benfatto, giovane e talentuosa fumettista veneta (si occupa anche di attività nel campo grafico e illustrativo) che, per fare qualche nome fra i tanti, pubblica e ha pubblicato su ANIMAls, Hamelin, Linea grafica, Fabrica Files (..) Ah. Se non bastasse è anche docente presso la sede padovana dell'Internazionale Comics.
Ad ogni modo tutte le informazioni a riguardo le trovate su http://www.elisabettabenfatto.blogspot.com/ e potrete ben notare da soli che le citazioni fatte sono percentualmente infinitesimali nel suo curriculum.

La chiacchierata inizia in modo casuale, all'aria aperta, mentre ci dirigiamo affamate verso il più vicino bar.

E.B."(..)Io sono piuttosto anti tecnologica, preferisco presenziare il p possibile fisicamente quando vengono presentati i miei lavori o comunque le opere alle quali ho collaborato e farmi conoscere così. Anche se devo dire che il computer è assolutamente necessario e, di necessità virtù, ho dovuto imparare ad usarlo perlomeno discretamente bene."

ES." Sì è vero. E' necessario. Anche se sull'uso del computer nel campo dell'illustrazione io ho una posizione piuttosto hard core. Mi spiego. Tutte queste nuove illustrazioni, animazioni fatte a tavoletta grafica, photoshop e chi più ne ha più ne metta..non mi piacciono. Personalmente trovo che non sia illustrazione VERA. E' asettica, impersonale. E volendo passare dal punto di vista del fruitore a quello dell'illustratore.. Beh. forse è anche peggio. Il disegno non ti porta più. Fai un errore mentre lo esegui e ..bon. Freccetta indietro e dell'errore non v'è più traccia. Non c'è più la necessità di un'idea in aggiunta alla prima per cercare di camuffare l'errore e renderlo parte dell'opera. Diventa statico. Non sei più condotto da nessuna parte."

E.B." Mi trovi assolutamente d'accordo. Penso che, soprattutto in fase di formazione dell'artista, sia pericoloso essere supportati dal computer. La mano è uno strumento di conoscenza e va allenata con primaria urgenza. Pensa solo che una volta anche che ne so, gli archeologi, gli esploratori gli scienziati.. non potevano fotografare, scannerizzare o vattelapesca. Lo studio e la diffusione della conoscenza avvenivano in larga porzione tramite appunti disegnati. Non vi era altro strumento. Il computer è utilissimo come mezzo, ma deve essere di supporto, quando si è già formati e consapevoli dell'uso che se ne fa. Il disegno a mano ha spesso un altro sapore, più grezzo, più vicino a noi. E come diceva Mozart "la bellezza sta nell'imperfezione".

ES." e io che pensavo fosse farina del mio sacco."

..Piccoli eghi smisurati crescono.
 Siamo arrivate al bar, abbiamo ordinato e preso posto al tavolino. Tesa e con le mani sudaticce, ho tirato fuori la cartellina degli appunti per fare le domande e nascondermi dietro un'aria para professionale.

ES. " Beh, inizierei con una domanda banale che poi cosi' banale forse non è. In cosa cosiste il Suo lavoro?"

E.B " Altro che banale. Questa è una domanda complessa. Ah, e dammi del tu! Vediamo.. Sì. Ti rispondo così. Il mio lavoro consiste nell'essere un essere umano. Nel seguire una vocazione e un bisogno primario di comunciarsi e comunicare col proprio strumento. Non saprei dirlo in un altro modo. Per scelta credo sia giusto non razionalizzare questi discorsi e comunicarli come si sentono. E anche se può suonare da artistoide o comunque strano io lo vivo così. Tu dai agli altri il tuo sguardo sul mondo.



ES. " ..e qui capisco la sua citazione-manifesto di Picasso presente nel Suo, orco, TUO blog.

(Riporto. : " ..spesso lo "stile" è qualcosa che vincola l'artista a uno stesso modo di vedere, alla stessa tecnica, le stesse formule anno dopo anno, qualche volta anche per tutta la vita. Lo si riconosce subito ma è sempre lo stesso vestito, è lo stesso taglio di abito. Tuttavia ci sono grandi pittori che hanno stile. Io invece mi agito troppo, vagabondo troppo. Tu mi vedi qua, e io sono già cambiato, sono da un'altra parte. Io non sono mai vincolato e per questo non ho uno stile.")

E.B. " Esattamente. Ovvviamente, ribadisco, tutto quello che ti dico è da riferirsi unicamente al mio percorso e al mio modo di percepire le cose. Spesso, a mio avviso avere uno stile di tratto, di disegno, di tecnica può diventare una gabbia per l'artista. Sì, sei riconoscibile, ma rischi di ripeterti e fermare un percorso personale che puo' essere molto più ampio. Il vero stile, lo stile in senso puro, è il tuo modo di vedere e vivere le cose che è unico: già da solo cifra distintiva artistica. Ed ecco come il mio lavoro è di diversi generi e formati."

(Nel mentre mi rendo conto che posso anche mettere via la penna con la quale volevo ingenuamente prendere appunti e decido di rischiare di far affidamento sulla memoria. Quindi la metto via e cerco di aprire ancora meglio orecchie e cervello.)

ES. "..lavoro. Ma è effettivamente qualcosa che ha una durata lavorativa nell'arco della giornata? otto ore pausa pranzo e tutti a casa a mangiare la pizza?"

E.B " Assolutamente no. Anzi, ti direi che è un processo senza margini, fastidiosamente continuo. Questo mestiere ha alla base la curiosità, l'osservare al posto del vedere, l'osservare anche ad occhi chiusi. Non c'è mai tregua, ogni cosa, anche la più piccina è spunto per qualcos'altro. Io per staccare uso lo sport, che è l'unica cosa che mi permette di NON pensare. Cammino, cammino tanto. Ma quello che più di tutto mi permette di staccare la spina è una bella nuotata."



ES. " Altrimenti si soffoca. In che rapporto è con la Sua creatività?"

E.B. " Ma dammi pure del tu che mi fa strano sennò!"

ES. "Porca vacca, mi scusi, orco, scusa, è più forte di me. In che rapporto sei con la tua creatività?" (e intanto canticchio fra me e me I'm a loser dei Beatles)

E.B. "Anche questa, domanda non facile. Per me disegnare, come raccontare, è una forma interrogativa continua. Non vi è distinzione fra bozzetto ed esecutivo, come non vi è distinzione di passato e presente fra i segni. Tutto converge in un unico punto di indagine che è senza tempo, oppure, se bisogna darne uno, presente. Anche se il tempo fisico nello sviluppo delle opere scorre, il tempo artistico di un opera è unico."

ES. "E qual'è il Suo rapporto con le opere invece?" (Cazzo. I'm a looooooser)

EB. "Io mi sento loro figlia. Non sono fautrice di quello che poi, nel pratico eseguo. Sono figlia della loro esperienza. Devo viverle. E' fondamentale però che ci sia una sorta di distacco fra me e loro. Se faccio qualcosa e ne sono troppo coinvolta, so che quello che produrrò non sarà efficace. Il mio sentire deve essere elemento componente, ma non unico. E forse a "prodotto" finito, non riconoscibile perchè mescolato con il resto."

ES."Si può vivere solo di illustrazione?"

EB. " Sì, ci si puo' vivere, ma a lungo termine. Non è materiale di sostentamento immediato. All' inizio le contingenze ti portano a fare un po' di tutto. Anche consegnare pizze. Se sei fortunato trovi qualcosa che non è il tuo vero lavoro ma ci si puo' avvicinare. Io per esempio ho lavorato tre anni e mezzo in uno studio di grafica, alla fine pero' non avevo quasi più tempo per disegnare e iniziavo a stare male, perchè mi mancava. Ho imparato molto, ma poi sono stata naturalmente ricondotta alle mie origini."

ES. "Volenti o nolenti, il mondo della creatività è ancora luogo dove l'uomo la fa da padrone. Ha mai sentito condizionamenti o vincoli per questa ragione?"

EB. " Nonostante ci siano diverse figure femminili che si stanno facendo largo, è innegabile dire che, sì, gli uomini sono ancora dominanti in questo settore. Ho lavorato spesso in team interamente (a mia esclusione) maschili e devo dire che non ho sentito particolari pressioni. Anche se una cosa va detta. Questa parità nel lavorare assieme l'ho vissuta soprattutto con artisti stranieri. Nessuno spagnolo, inglese o tedesco mentre si lavora si sognerebbe mai di fare battutine sulla tua sessualità, ma perchè proprio non viene loro spontaneo farle. L'italiano invece qui si riconosce, e qualche battuta, la fa."

Come aspettarsi qualcosa di diverso da un popolo che a capo ha un politico che nelle foto di gruppo si sollazza facendo le corna?Ma questa è un'altra storia.

ES."Cosa Le piacerebbe fare in futuro?" (e dajela)

E.B." Come ti ho già detto alla base di questo lavoro c'è la curiosità. Di conseguenza mi piacerebbe provare a farlo anche all'estero. Sicuramente un passaggio per la Francia (n.d.r. paese dove la cultura dei comics e dell'illustrazione è affermata e decisamente meglio retribuita che in Italia) lo farò"

ES. "Il mio sogno è andare in Canada"

EB. "Bingo. Anche a me quando espatrierò, piacerebbe andare soprattutto fuori dall'Europa. Qui, bene o male ,abbiamo un pensiero vecchio, già formato. Mi piace l'idea di poter conoscere qualcosa di nuovo e di diverso."

ES." Cambierebbe qualcosa della Sua formazione artistica? (tutto sto Lei. Non mi facevo così educata)

EB." Assolutamente sì. Ho frequentato l'Accademia di Belle Arti a Venezia e ho trovato tremendo (ovviamente con i dovuti distunguo ad personam al suo interno) il fatto che a diciotto anni invece di sfruttare l'occasione d'imparare da un maestro, si dovesse andare a dimostrare di essere artisti. Non sei un'artista a diciotto anni. O meglio lo sei in potenza, ma hai bisogno di qualcuno che ti mostri le strade e ti disciplini. Il tempo per imparare con efficacia viene una sola volta nella vita. A trent'anni, anche se è triste dirlo, non sei più ricettivo come a venti. Sei già consolidato come persona quindi, anche giustamente, più impermeabile agli insegnamenti. C'è anche da dire che proprio da un professore universitario (quello di fotografia), a diciotto anni ho avuto la mia prima commissione di lavoro."

ES." Non tutto il male vien per nuocere. Quali sono stati per Lei i disegni di riferimento nella crescita?"

E.B" (ride) Beh, da quando avevo circa tre anni disegno. Quindi Heidi, Jeeg Robot e l'Uomo Ragno. Pensa te che recentemente ho trovato in uno scatolone dei fumetti che facevo da piccola. Ma non ci sono i balloons con le parole. Facevo io le voci dopo aver disegnato. (ride di nuovo, ridiamo anzi) Dopo averli ritrovati, sfogliandoli mi sono resa conto che mi stavo ripetendo ancora pezzi di dialoghi a memoria"

ES."Disegnatrice e doppiatrice. Questo lavoro l'ha mai portata ad aver rimpianti?"

EB." No, direi di no. E' un lavoro che bisogna, soprattutto voi (alunni) che state ancora imparando,vivere e farlo senza ansie. Anche perchè non è solo la bravura che conta, o meglio. Conta quanto il caso, l'essere nel posto giusto al momento giusto e via dicendo. Mai pensare troppo in là, ma pensare a quello che si sta facendo."

L'intervista si conclude più o meno qui. Ci lasciamo (non mi permette di pagare) soddisfatte e forse anche un po' stordite dell'entità dei discorsi.
Credo che la cosa principale che mi è rimasta dentro una volta decantati i discorsi, sia che bisogna imparare ad imparare e a disporsi alle cose nel modo più naturale possibile.
Sicuro è che non ho imparato a darLe del tu.

domenica 13 marzo 2011

BitchFest. Una pseudorecensione.

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Le mie abitudini di consumo sono rimaste pressoché invariate nel corso degli ultimi dieci anni.
Un tempo ero solita suscitare l'ira di mia madre spendendo tutti i miei soldi in dischi e libri. Dopo aver riempito la mia camera di scaffali e aver fatto arrivare la sezione "narrativa americana e britannica" fino al soffitto, decisi che era giunta l'ora di sfondare le barricate e colonizzare anche il salotto e l'atrio.
Quando avevo quindici o sedici anni ricordo che mio padre cominciò a temere che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato in me, dato che non mi truccavo e snobbavo con grande passione le gioie dell'abbigliamento truzzo. Ebbene sì, mi vestivo a caso, ma leggevo ed ascoltavo con molto criterio.

Da allora, come dicevo, le mie abitudini di consumo non sono variate granché, eccettuato il fatto che quasi tutti i libri e i dischi che compro vengono dalla magica terra di Internet.
Di recente ho sviluppato anche una nuova passione per le riviste irreperibili sul mercato italiano. Parte della colpa è di due libri, che acquistai su BookDepository dopo averne letto chissà dove e chissà quando.
Oggi vi parlo del secondo, perché ce l'ho qui sulla scrivania e perché, a differenza del primo, ha direttamente a che fare con una rivista viva e vegeta.

Il libro in questione si chiama BitchFest. Ten Years of Cultural Criticism from the Pages of Bitch Magazine (AA. VV., a cura di Lisa Jervis e Andi Zeisler). Come dice il titolo, si tratta di un'antologia di articoli apparsi sulle pagine della nota e notevole rivista americana Bitch, di cui qui si è già parlato brevemente.
Il bello di questo libro è che permette anche a noi lettrici/lettori italiane/i di assaporare un approccio critico alla pop culture che, a mio avviso, è a dir poco peculiare, se non altro agli occhi di una ventenne italiana. Reperire commenti ben scritti, ben argomentati e soprattutto non tediosi sul modo in cui le donne vengono rappresentate nei mass media non è esattamente una passeggiata.
Negli ultimi tempi si è parlato molto di questi temi, vista la triste situazione in cui riversa il nostro paese, ma ciononostante io continuo a sentire la mancanza di una testata che scavi ulteriormente, dando spazio non solo alle donne in generale, ma anche anche a categorie che saremmo portati a non leggere nemmeno nel nostro radar.
BitchFest mi ha condotta per mano lungo un percorso che si snoda lungo una serie di nodi tematici densi e significativi (alcuni esempi: Hitting Puberty, Feminily, Masculinity and Identity, The F Word, Love, Sex and Marketing, Beauty Myths and Body Projects, Activism and Pop Culture), punteggiati da articoli ironici, irriverenti e che sembrano fatti apposta per farti venire voglia di approndire questioni delle quali eri totalmente all'oscuro fino a ieri.
Dall'analisi sociolinguistica dell'espressione "You Guys" alla disamina di decenni di narrativa per young adults alla ricerca di protagoniste lesbiche che non facciano una brutta fine, passando per il fenomeno televisivo delle Mean Girls e molto altro ancora.
Il bello di BitchFest è la varietà delle voci che lo compongono, la sua natura composita e la conseguente molteplicità di temi e angolature che vi trovano spazio. Certo, la questione principe è quella del genere, nelle sue mille declinazioni possibili (tra autobiografismi, rappresentazioni mediatiche e l'imperitura questione del corpo), ma mai in un'ottica segregata dalle esperienze che viviamo quotidianamente. La classe sociale, l'appartenenza ad una minoranza etnica o religiosa, l'orientamento sessuale sono variabili che non vengono mai dimenticate. Questo fa di BitchFest una sorta di compendio di analisi femminista rivolto ad un pubblico molto vasto, ma pensato soprattutto per le ragazze appassionate di pop culture che necessitano dei giusti strumenti critici per individuarne ed analizzarne le insidie. Particolarmente pregevole è l'ultima sezione del libro, dedicata alle forme di attivismo che permettono a tutte noi di influenzare il modo in cui le donne vengono rappresentate nei mass media, dalla quale traspare un'idea lucida e pragmatica del rapporto che lega indissolubilmente femminismo e pop culture.
Caldamente consigliato a lettrici e lettori, sperando che un giorno BitchFest venga tradotto anche in italiano.

* l'illustrazione in apertura è tratta da hannahklee.com

mercoledì 9 marzo 2011

A FEMINIST ICON: Rosie the riveter

3 commenti
Che cosa s’intende per “icona”?
Dal greco eikón (immagine), il termine icona in origine era usato per designare le immagini a carattere religioso (nella fattispecie il Cristo e la Madonna) dipinte su tavola o metallo ed esposte al culto pubblico. Era quindi una parola usata esclusivamente in ambito artistico.
Con lo svilupparsi della cultura pop, il termine “icona” diviene attributo assegnabile a qualunque cosa (loghi, persone, immagini, gli stessi nomi propri) risulti particolarmente rappresentativa di un periodo storico, un luogo o una generazione e alla quale un vasto gruppo di persone riesca a ricondurre un forte valore culturale.
Icona è ciò che risulta immune allo scorrere del tempo; ciò che mantiene inalterata la propria efficacia espressiva e si incide permanentemente nella nostra memoria.


Con questo post prende il via una mia nuova rubrica dedicata ad icone che popolano con prepotenza a livelli variabili il mio immaginario e cui mi fa piacere dedicare un piccolo spazio di approfondimento. Voglia essere di vostro gradimento.
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Moltissime/i di voi avranno già visto quest'immagine prima d'ora. Manifesti, spille, tee shirts,
merchandise di vario tipo, quest’immagine ha ormai spopolato il nostro immaginario. Ma da dove è sbucata? Di
chi si tratta, veramente? Vedo qualche mano alzata, ben
e sì, qualcuno lo sa; qualcuno ne ha una vaga idea, altri si fingono svenuti per evitare di rispondere. Bene, sono qui appunto per chiarire qualche dubbio.


Ci si riferisce alla suddetta
immagine co
me a ROSIE THE RIVETER. Rosie, nome comune di donna, e Riveter nel senso di “imbullonatrice”, “colei che fissa coi chiodi” o, a voler essere
estremamente precisi, “rivettatrice” (applauso meritato, se sapete cos’è un rivetto).
L’America inizia a parlare per la prima volta di “Rosie the riveter” quando, nel 1942, l’omonima canzone di Redd Evans e John Jacob Loeb diventa tormentone nazionale. Questi i versi principali (potete ascoltarla qui intanto):

While other girls attend their fav’rite cocktail bar
slippin’ dry martinis munchin’ caviar
there’s a girl who’s really puttin’ them to shame
Rosie – is her name.
All the day long, whether rain or shine,
she’s a part of the assembly line,
she’s makin’ history,
workin’ for victory,
Rosie, the riveter.

La canzone esaltava l’operato dell’efficiente addetta alla catena di montaggio Rosie, rimproverando nel contempo la mancanza di patriottismo delle donne che, diversamente dalla protagonista, non contribuirono allo sforzo bellico del paese, preferendovi la frequentazione di cocktail bar (l’iperbole, la figura retorica preferita dagli uomini, nda).
Si era nel pieno del secondo conflitto mondiale e gli Stati Uniti vi avevano appena preso parte. Gli uomini, convocati in massa al fronte, dovettero lasciare vacanti i loro posti di lavoro. La produzione di materiale bellico rischiava di subire una brusca frenata, proprio ora che le richieste di munizioni e mezzi da parte dell’esercito erano alle stelle. Chi avrebbe potuto sostituire questi uomini se non le loro mogli o le altre giovani donne americane? Che questa fosse l’unica soluzione praticabile era ovvio sia alle varie aziende che al governo; si poneva d’altra parte il problema di sensibilizzare le donne, tradizionalmente dedite alla cura della casa e dei figli, a collaborare allo sforzo dell’intera nazione. Il governo indisse così una vasta campagna propagandistica atta a convincerle (e a convincere i loro mariti, restii a vederle ricoprire certi ruoli) che la loro presenza nella forza lavoro fosse essenziale in questo frangente. “Do the job he left behind” e “The more women at work, the sooner we will win” furono solo alcuni degli slogan scelti per l’occasione.
La risposta delle donne americane a questa campagna superò ogni aspettativa. Addirittura molte delle aziende che fino a quel momento avevano dato lavoro alle donne (e parliamo di occupazioni tradizionali all’interno, per esempio, di lavanderie) furono costrette a chiudere per mancanza di personale.
Molto numerosa fu anche la partecipazione di donne afroamericane: si dice che proprio il lavoro di squadra che vedeva coinvolte operaie bianche e operaie nere riuscì a stimolare un’accettazione positiva della diversità, contribuendo ad abbattere alcune delle barriere razziali allora esistenti.

Il medesimo anno in cui venne rilasciata la canzone di Evans e Loeb, l’artista e grafico americano J.Howard Miller realizzò il noto manifesto “WE CAN DO IT!” (:possiamo farcela) per la Westinghouse Company (compagnia che l’aveva assunto allo scopo specifico di realizzare posters a sostegno dello sforzo bellico). Miller realizzò quest’immagine prendendo spunto da una fotografia scattata qualche tempo prima ad una ragazza che lavorava in fabbrica. Si trattava di Geraldine Hoff (poi Geraldine Doyle), diciottenne addetta alla pressa metallica dell’American Broach & Machine Company di Ann Arbor – Michigan. Geraldine in realtà lavorò per pochissimo tempo in questa compagnia: essendo violoncellista e temendo di potersi seriamente danneggiare le mani svolgendo quel tipo di lavoro, lasciò la ABMC molto presto. Il caso volle che proprio nel periodo che trascorse in fabbrica le venisse scattata una foto (visibile qui sotto) da un addetto dell’United Press International; proprio la foto su cui Miller lavorò in seguito per realizzare il celeberrimo manifesto.

Il manifesto “We can do it!” non fu associato immediatamente al nome di “Rosie the riveter” e non fu nemmeno così popolare, all’epoca: creato per un progetto interno alla Westinghouse Company, fu esposto solamente per poche settimane. Dopodiché finì nel dimenticatoio. La stessa Geraldine non seppe di esserne stata la modella fino al 1984, quando una rivista americana pubblicò un articolo in cui le veniva accreditata la foto del poster. La sua riscoperta e la sua incoronazione ad icona del femminismo avvennero solamente nei decenni successivi, quando le attiviste presero ad invocare nel suo nome un più dignitoso trattamento sul posto di lavoro.

La prima vera volta in cui il nome Rosie venne associato ad una rappresentazione grafica della donna lavoratrice fu con il dipinto di Norman Rockwell, finito sulla copertina del Saturday Evening Post nel 1943. Rosie vi è ritratta mentre consuma il pranzo tenendo in grembo un attrezzo per fissare i bulloni e calpestando indifferente una copia del Mein Kampf hitleriano. La posa della donna è ispirata curiosamente ad Isaia il profeta ritratto nella Cappella Sistina. La modella di Rockwell fu Mary Doyle (poi Keefe), un’operatrice telefonica di Arlington – Vermont – all’epoca diciannovenne. Le venne chiesto di posare per impersonare Rosie e lei accettò. Ebbe modo di vedere il quadro ultimato solo successivamente, quando era già stato scelto come copertina del Saturday Evening Post: fu piuttosto sorpresa nel vedere come la sua esile corporatura fosse stata convertita in una silouhette decisamente più forzuta (tuttavia le scuse dell’artista non tardarono ad giungerle). Da questo momento in poi "Rosie" divenne il modo più comune per descrivere tutte le donne lavoratrici d'America che collaborono allo sforzo bellico (e viene tuttora usato per ricordarle).
La figura di “Rosie the riveter” ispirò un movimento sociale che fece registrare nel 1944 un aumento (rispetto al 1940) del 57% delle donne americane al lavoro. Sebbene le donne avessero in quel periodo guadagnato una certa visibilità e credibilità in quanto operaie (e non solo: i dati parlano di donne che davano il loro contributo all’economia americana ricoprendovi i ruoli più disparati), la paga che ricevevano per il lavoro svolto era comunque inferiore a quella percepita dai loro mariti: si parla di $31,50 alla settimana contro $54,65. Il lavoro era faticoso e sgradevole (psicologicamente difficile, se non altro perché ci si recava al lavoro sapendo che fuori impazzava una guerra, che gli uomini sarebbero potuti non tornare e che il lavoro doveva essere svolto in modo impeccabile); tuttavia molte donne vollero rimanere ai loro posti anche quando gli uomini fecero ritorno dal fronte. Furono però una minoranza: a guerra finita, gran parte delle Rosie tornò ad occuparsi della casa o di altre mansioni tradizionali, restituendo il posto di lavoro agli uomini che lo reclamavano. Ciononostante diversi storici hanno osservato come l’esperienza di Rosie sia servita a dare alle donne maggior fiducia in loro stesse, gettando le basi per ciò che, in seguito, si sarebbe sviluppato come un più compiuto movimento al femminile ed una più decisa partecipazione alla forza lavoro. Ciò che aveva legato tra loro le lavoratrici americane durante il periodo bellico era stata la nuova consapevolezza di essere in grado di fare i lavori tradizionalmente assegnati agli uomini, e per di più di saperlo fare bene.

Ho ritrovato in rete la testimonianza di una donna, Inez Sauer che durante la guerra lavorò per la Boeing come addetta agli attrezzi; mi sembra più che esaustiva di quanto si sta dicendo:

“Mia madre mi aveva avvisata del fatto che, una volta iniziato quel lavoro, non sarei più stata la stessa. Mi disse ‘ Non vorrai più tornare ad essere una casalinga’. A quel tempo non ci pensai; ma aveva ragione, cambiai davvero. Alla Boeing sperimentai una libertà e un’ indipendenza mai provate prima. Dopo la guerra non sarei più potuta tornare a giocare a bridge, ad essere una donna da club… non dopo aver visto che ci potevano essere dei lavori per i quali avrei potuto usare la testa. La guerra mi ha completamente cambiato la vita. Si potrebbe dire che crebbi solo allora, a trentun’anni.”

Qualche passo avanti era stato fatto, ma solo successivamente (negli anni Settanta, proseguendo negli Ottanta), la riscoperta della figura di Rosie divenne cruciale per le donne che intendevano lottare per vedere riconosciuti i propri diritti. Essa divenne infatti riferimento per le attiviste e venne riutilizzata persino all’interno della letteratura popolare. Nel 1981 è uscito un documentario dal titolo The life and times of Rosie the riveter curato da Connie Field, che ha avuto l’idea di girarlo dopo aver partecipato ad un meeting di storiche Rosie in California. Il film si basa sulla raccolta di interviste (circa 700) e ricerche: vi si racconta la vera storia di cinque donne americane che ebbero a lavorare in fabbrica durante la Seconda Guerra Mondiale, il tutto intervallato da musica dell’epoca, immagini e pubblicità di repertorio. Il film ha ricevuto diversi riconoscimenti e è stato doppiato doppiato in più lingue (non in italiano, purtroppo; ma i/le più abili con l'inglese non temano: si può facilmente rinvenire in rete).

Out of curiosity. Come molte altre icone note, anche la povera Rosie la rivettatrice ha finito per diventare oggetto delle più diaboliche campagne di marketing nonché di produzione di chincaglierie: esistono persino delle action-figures (sì, dei simil Big Jim) di Rosie, così come delle statuette dal testone semovente ispirate alla figura di Rosie-Geraldine, degli zoccoli con la sua effige sul davanti; persino quelle sfere-soprammobile (con la neve finta dentro) ne hanno tratto.
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