giovedì 28 aprile 2011

Earth Overshoot Day

0 commenti

L’Earth Overshoot Day è il giorno in cui l’umanità, per esistere, utilizza più risorse di quante l’intero pianeta le metta a disposizione. A partire da questa particolare data, iniziamo a consumare le risorse dell’anno seguente e andiamo in quindi in quello che si potrebbe chiamare “debito ecologico”.
L’anno scorso l’Earth Overshoot Day è avvenuto il 21 Agosto; nel 2000 avveniva il 20 novembre. Quest’anno, il Nord del mondo ha già terminato le risorse a sua disposizione. Non siamo ancora in debito ecologico grazie alla Spagna - unico paese europeo in regola con i “conti” - l’Australia e l’Africa.
Il giorno in cui tutti gli esseri umani di questo pianeta avranno un tenore di vita come quello occidentale attuale, la terra non sarà in grado di reggerne il peso.
Ne abbiamo, di strada da fare.

Basta con la musica pallosa! E’ primavera!

3 commenti
Anche quest’anno la primavera è arrivata. Anche quest’anno il sole fa fiorire mandorli e ciliegi, sparge nell’aria tiepida i pollini e fa sbocciare sulle nostre fronti i primi brufoli sottopelle. Dopo un inverno passato a studiare nelle nostre anguste camerette alzando ogni tanto la testa per vedere solo neve, gelo e passanti intabarrati, finalmente la natura risorge e le zanzare escono in punta di piedi dal letargo. Si ricomincia ad uscire di casa, ci si sdraia sui prati a contare i petali delle margherite, si gioca a palla con gli amici e si ozia ai tavolini ricomparsi all’esterno dei bar.
Ormai la musica che ascoltavi nei mesi autunnali e invernali comincia a sciogliersi al sole come la neve sui monti: gli Arcade Fire ti fanno sentire claustrofobico come in uno di quei souvenir a forma di boccia con la neve dentro, Antony and the Johnsons cominciano a sembrarti fuori luogo e un pelo lagnosi, i Sigur Rós non parlano più al tuo cuore bensì ti fanno calare la palpebra (ed eventualmente il testicolo).
Urge quindi una colonna sonora per la primavera. Ed io, che di mestiere faccio il dio (cit.), vi voglio proporre in ordine sparso cinque album di cinque band differenti che hanno saziato la mia voglia di estate. Qui sotto descrivo brevemente la band e la storia del disco (e aggiungo in corsivo il mio commento), ma è più importante che ascoltiate ciò di cui si parla, per cui vi ho aggiunto un video per ogni mia proposta.

Sublime – 40 Oz. to Freedom (1992)

I Sublime sono stati uno dei più importanti gruppi underground californiani degli anni ’90. La band, nata nel 1988 a Long Beach, California del Sud, era formata da Eric Wilson (basso), Bud Gaugh (batteria) e dal carismatico Brad Nowell (chitarra e voce). Quest’ultimo adottò un dalmata e lo chiamò Louie, il quale diventò la mascotte del gruppo, apparendo nei loro video e gironzolando attorno al palco durante i concerti. I Sublime sono incredibilmente riusciti a fondere influenze rock, ska, reggae, punk hardcore, hip-hop e dub senza risultare sgradevoli e, anzi, fecero di questo eclettismo citazionista il loro punto forte. Dato che nonostante tutto non riuscivano a farsi scritturare da nessuna etichetta decisero di fondarne una, chiamata Skunk Records e, dopo aver girato la California per anni, concentrandosi sulle loro esibizioni dal vivo e producendo alcuni demo, registrarono il loro primo album vero e proprio, 40 Oz. to Freedom, nel 1992. Il titolo allude ai liquori di malto, solitamente venduti in bottiglie da 40 once. Il gruppo, in effetti, aveva un rapporto per così dire disinvolto con alcool e droga: sarà proprio l’eroina a portare via prematuramente (nel ’96) Brad, il cantante. Dopo la scomparsa di colui che aveva dato l’impronta principale alla loro musica, i Sublime decisero di sciogliersi.
Questa è Date Rape, il singolo che trascinò al successo i Sublime grazie all’ironico ed esilarante testo. Brad parla infatti di un "date rape", ovvero di uno stupro ai danni di una ragazza ubriacata da uno sconosciuto. Ma alla fine lo stupratore verrà ripagato con la stessa moneta. Il racconto della vicenda, di denuncia nonostante l'apparente leggerezza, è unito ad un ritmo allegro e veloce. In questa canzone non si esaurisce però la musica dei Sublime. Per questo, vi consiglio vivamente di ascoltare l’intero album, farcito di generi e citazioni. Ad un primo impatto può risultare un po’ indigesto, ma ascolto dopo ascolto non vi lascerà più. Non lasciatevi ingannare dall’aspetto poco invitante dei musicisti.



The Specials – Specials (1979)

Gli Specials si sono formati nel 1977 a Coventry (Inghilterra) con il nome di Automatics, poi cambiato in The Coventry Automatics, poi ancora in The Special AKA The Coventry Automatics e finalmente in The Special AKA, poi semplificato in The Specials. Hanno fatto parte dell’onda tutta inglese chiamata 2 Tone Ska (dal nome della principale etichetta discografica), un movimento di musicisti desiderosi di ricollegarsi alla musica giamaicana degli anni ’60. Oltre agli Specials, i più famosi erano i Selecter (con la caratteristica frontwoman Pauline Black), i Madness, i Bad Manners. Gli Specials erano forse quelli più socialmente e politicamente impegnati, in particolare contro il razzismo: oltre a condividere con gli altri gruppi ska lo stile black&white (in realtà ripreso dallo ska anni ’60, ma che simboleggiava anche l’integrazione tra neri e bianchi) gli stessi componenti erano sia neri, che bianchi. Jerry Dammers, tastierista della band, fondò l’etichetta discografica 2 Tone Records e, dopo aver registrato il singolo Gangsters (arrivando nella top 10 inglese) fece uscire nel 1979 il primo album del gruppo, chiamato per l’appunto Specials.
Anche se tutto il movimento 2 Tone Ska fa allegria, gli Specials erano a mio parere i più dotati e impegnati. Essendo l’onda di cui fanno parte essenzialmente un revival ska unito al rock (e per alcuni aspetti al punk, in particolare quello dei Clash) non aspettatevi grandissime novità, ma si tratta di musica allegra suonata bene. All’interno del cd le cover sono quattro, tra le altre la famosissima A Message To You Rudy e la simpatica Monkey Man dei Toots And The Maytals. Tra le loro canzoni originali mi piace moltissimo Gangsters, ma qui invece vi propongo una versione live e velocizzata rispetto al disco (cosa che facevano spesso dal vivo) di Do The Dog.



Gogol Bordello – Gypsy Punks: Underdog World Strike (2005)

I Gogol Bordello, capeggiati dall’insostituibile Eugene Hutz, nascono nel 1993 a New York, ma la composizione del gruppo non è certo solo a stelle e strisce. Eugene è Ucraino, e gli altri componenti provengono da Russia, Israele, Etiopia, Scozia, Ecuador, Stati Uniti. Lo stile che ne deriva è naturalmente ricco di influenze, ma improntato principalmente sulla musica gitana e sul punk: come recita il titolo del disco, infatti, il loro genere è il gypsy punk. Gli strumenti più caratteristici che usano, per farsi un’idea, sono il violino, la fisarmonica, la chitarra (distorta e non) e percussioni di ogni tipo (tamburi, tamburetti, tamburelli, strani oggetti…). I Gogol Bordello si concentrano principalmente sulle esibizioni dal vivo, durante le quali il cantante dà il meglio di sé e finalmente entrano in azione le due ragazze-tamburo-piatti che lo aiutano a fare “bordello”. Hutz, scappato da Chernobyl nell’86 e in attesa di un visto per gli Stati Uniti, ha vissuto per un anno in Italia (facendo anche il lavavetri) e ciò ha influenzato molto la carriera dell’artista. Per fare un esempio, basta ascoltare la canzone Santa Marinella, dove il testo in russo è inframmezzato da bestemmie al 100% italiane. Il nome della band (che inizialmente era Hutz and the Béla Bartòks) deriva dal nome dello scrittore ucraino Nikolaj Gogol’ e dalla parola italiana che ben conosciamo.
Anche se la mia canzone preferita dei Gogol, Wonderlust King, fa parte dell’ultimo album, questo disco è senz’altro il punto da cui partire per conoscere il gruppo. Anche se la traccia più famosa è senza dubbio Start Wearing Purple, il video che più di tutti rende l’idea di che cosa sia una loro esibizione dal vivo (che per esperienza personale vi consiglio) è questo, di Not A Crime.



Boo! – Seventies, Eighties, Nineties, Naughties (2000)

I Boo! si formano nel 1997 dall’unione di “Miss” Chris Chameleon (cantante e bassista, come gli altri due è un uomo, ma basta vederlo sul palco per capire il perché di “Miss”) e di Princess Leonie e Ampie Omo. Il cantante compone anche musiche e testi. Gli strumenti che usano sono percussioni, basso, tastiera, tromba e trombone. Caratteristica la voce del cantante, che fa spesso uso del falsetto e altre vocine. I Boo! si sono sciolti nel 2004, per poi ricomporsi nel 2010 con un nuovo album e con un nuovo batterista (che rimpiazza Princess Leonie). Anche se nel 2002 la band ha ricevuto riconoscimento in terra natale (con l’assegnazione del South Africa Music Award) il loro pubblico è principalmente sparso in giro per il mondo, in particolare Europa e Stati Uniti. Questo album contiene Champion, probabilmente l’unica canzone che ha raggiunto un minimo di notorietà in Italia.
Anche se non tutte le tracce di questo disco mi convincono (forse in questo preferisco Pynapl, più omogeneo) trasmette molta serenità e allegria, e comunque contiene Champion e Avocado Pair, le loro canzoni meglio riuscite e più famose. Siccome non sono riuscita a trovare video o esibizioni dell’epoca, ecco qui una loro esibizione del 2010 in cui potete comunque apprezzare la sgradevolezza del gruppo (solo alla vista, sia chiaro).




Shantel – Disko Partizani (2007)

Shantel è il nome d’arte di Stefan Hantel, DJ e produttore nato a Francoforte ma con origini esteuropee: i nonni materni provengono dalla Bucovina, un territorio a cavallo tra Romania e Ucraina. Comincia come DJ in Germania, organizzando serate chiamate Bucovina Club in cui mixa musica techno e musica balcanica. Con Disko Partizani si allontana dal primo tipo di musica per avvicinarsi di più al secondo: in breve quello che fa in questo album è prendere canzoni tipiche provenienti dai vari paesi dei Balcani (un esempio per tutti: Sota è una canzone tradizionale serba) e le riarrangia, rendendole attuali e mischiandole con altri generi e lingue. A differenza delle precedenti compilation, è stato registrato con la Bucovina Club Orkestar, quindi si tratta di riarrangiamenti veri e propri, non solo di remix. Anzi, a volte costruisce canzoni originali, come Disko Partizani. Il video della title track è stato girato a Istanbul.
Il disco, che descritto così non promette molto, ve lo consiglio invece caldamente, perché le rivisitazioni che Shantel fa valorizzano gli originali, invece che rovinarli, e li rendono ancora più ritmosi e gioiosi. Per intenderci, è uno di quegli album che vanno messi a tutto volume in macchina con i finestrini abbassati. Inoltre lo stile di Shantel, con quel cappellino peloso, mi ha conquistata. Ecco Disko Partizani, che riassume un po’ il lavoro dell’artista. Ogni tanto viene in Italia a fare qualche dj set, e io regolarmente me lo perdo.



Bene, spero di avervi dato qualche idea per mettere un sottofondo alle giornate di sole, e vi lascio con un video (dopo, lo giuro, non vi rompo più le scatole) dei Pixies, una canzone che non mi si toglie più dalla testa e che mi ha fatto apprezzare le doti (compositive e canore) della bassista Kim Deal, che poi fonderà i Breeders.

mercoledì 27 aprile 2011

Some people think little girls should be seen and not heard but I think oh bondage up yours!

0 commenti

Poly Styrene R.I.P. 

Non mi è facile parlare di Poly Styrene senza precipitare nel già detto, nel già sentito.
Mi limiterò quindi a ricordare la soddisfazione e il sollievo che provai nell'ascoltare Germ Free Adolescents per la prima, la seconda, la terza volta. Ero incredula. Il punk così come lo si trova oggi raccontato nei libri non era dunque fatto solo da uomini, pensai. Non era fatto solo da uomini, mentre le loro fidanzate si limitavano a finire nelle foto che decenni dopo avrei attaccato ai muri della mia camera. Fidanzate in formato spaghetti, copie carbone di Joey Ramone. Fidanzate di cui tutto sommato si sa poco, se escludiamo Nancy. Nancy di cui credo di non aver mai saputo il cognome, perché tanto basta dire la Nancy di Sid Vicious e tutti capiscono di chi stai parlando.
Poly Styrene, leader degli X-Ray Spex, era una straordinaria eccezione nel calderone del punk. In primis, era una frontman donna all'interno di una scena musicale dominata dagli uomini. Ma per me la bellezza di Poly Styrene stava soprattutto nella sua urgenza creativa, nei suoi testi, nella sua estetica e nel fatto che portasse l'apparecchio. Quest'ultimo dettaglio potrà sembrare insignificante, ma all'epoca lo interpretai come una dimostrazione del fatto che, nonostante i rituali di denigrazione cui sono tutt'ora sottoposti i portatori di ferraglia ortodontica, c'era speranza anche per noi weirdoes.
Poly Styrene era ed è questo per me. La dimostrazione del fatto che potevo essere me stessa, che nessun ridicolo standard estetico o club di soli uomini poteva frenarmi.

Lunedì un cancro al seno se l'è portata via. Aveva solo 53 anni. Oggi è uscito postumo il suo ultimo album da solista, Generation Indigo.






Gioventù

0 commenti

Avete mai provato l'angosciante sensazione di vivere una vita priva di scopo? Di essere solo velleitari sognatori senza concrete capacità di competere nel mondo reale? Avete mai pensato che la vita che state conducendo vi stia portando dove non volevate, inglobati all'interno di un sistema che pare rivelarsi esattamente identico a se stesso sia che si viva in una cittadina di provincia, sia che ci si trovi in una brulicante metropoli? Se ad almeno una di queste domande avete risposto in maniera affermativa questo libro fa per voi: leggetelo e vi sentirete meno soli, ma attenzione, non troverete alcuna soluzione ai problemi esistenziali sollevati, nessuna consolazione e nessuna speranza, solo la rincuorante coscienza del "male comune".
Scene di vita di provincia è il sottotitolo dell'opera, ovviamente solo in traduzione italiana, ma in questo caso azzeccato. Il percorso biografico che ripercorriamo fianco a fianco del protagonista ci conduce in effetti dal periferico sud Africa degli anni Sessanta alla labirintica Londra, con i suoi monolocali, i suoi uffici e le ultime corse della metro, ma nello sviluppo della vicenda nulla cambia col cambiare degli spazi geografici: assistiamo sempre allo stanco ripetersi di cliché lavorativi ed esistenziali, alle stesse angosce e alle stesse preoccupazione. Il sud Africa sullo sfondo appare come il "male" da cui fuggire, il paese del ristagno, dell'ingiustizia sociale e della mancanza di stimolo intellettuale.
Durante la narrazione c'illudiamo che per il protagonista sia possibile una "redenzione", la costruzione di un sè diverso in un luogo diverso, il conseguimento della vera emancipazione, quella dagli schemi dati per acquisiti (trovare un lavoro rispettabile e regolare, una casa di cui pagare il mutuo, una moglie che condivida la quotidianità), ma di volta in volta questi stessi schemi sembrano riemergere prepotentemente come unica possibilità per una vita "sana".
Non c'è nulla di idealista in questa vicenda, nulla che ricordi la vita degli artisti e scrittori a cui l'io narrante fa continuo riferimento (con pregevolissime citazioni e suggerimenti di lettura colti che mi hanno portata ad apprezzare immensamente il ricco bagaglio culturale che Coetzee è in grado di trasmettere): siamo di fronte al nulla del quotidiano, un nulla a cui il protagonista sembra non voler rassegnarsi. Alla ricerca di un significato vero da dare al vivere, l'io si perde e si ritrova a vivere nella stessa condizione provinciale da cui era fuggito, con l'illusione, pur breve, di aver costruito qualcosa di differente. Siamo tutti destinati all'inutile ripetizione di schemi predeterminati? E' possibile costruire qualcosa di differente, dare senso "vero" al nostro esistere o viviamo solo per far passare il tempo, arrivando a desiderare proprio quelle stesse cose da cui siamo fuggiti? Non vi svelo il finale, sarebbe un'ulteriore cattiveria in un mondo che non ci propone grandi dati positivi. Consolatorio e molto, molto attuale.

martedì 26 aprile 2011

My So-Called Books: Wintergirls di Laurie Halse Anderson

1 commenti
Alessandro Manzoni
Questo è il Paese in cui i professori maneggiano da decenni gli stessi programmi ministeriali. Le variazioni nel tempo sono state minime, spesso insignificanti, come loro stessi vi diranno se vi prenderete la briga di andare a chiederglielo.
“Manzoni, Manzoni, Manzoni”, sibilano voci provenienti dal nostro passato (prossimo o remoto, a seconda dei casi). Manzoni e la disperata ricerca di simboli collocati dall'autore nei suoi Promessi Sposi; simboli la cui esistenza ci pareva esclusivamente finalizzata alla tortura di generazioni di studenti, talvolta addirittura costruita ad hoc da critici letterari e docenti sadici.
I programmi ministeriali sono una traccia emblematica e agilmente scaricabile da internet di quella che noi sociologi chiamiamo la distinzione tra letture legittime e letture illegittime. Onde essere sintetici, potremmo dire che le linee guida del Ministero dell'Istruzione rappresentano il non plus ultra delle letture legittime, mentre tutto ciò che ne resta escluso può essere collocato in diversi punti del continuum che ha per estremi queste due categorie.
La definizione di letture legittime e letture illegittime non è operabile da chiunque. In generale potremmo dire che è necessario avere in mano una certa dose di potere per decretare cosa e è cosa non è degno di essere letto.
Si parte appunto dagli esperti del Ministero dell'Istruzione e da quella che impropriamente potremmo chiamare la classe degli intellettuali per arrivare ai professori e ai maestri delle scuole.
Queste definizioni che sulla carta paiono solo aria fritta hanno invece un certo peso sulle nostre abitudini e sul modo in cui interagiamo con gli altri. Ad esempio potremmo chiederci perché nella domanda: “Hai letto qualcosa di bello di recente?” è spesso implicita un'esclusione netta dei fumetti dall'universo del “letto”. Oppure diventa interessante il modo in cui ci censuriamo da soli, tenendo segreto il consumo di libri “di genere”, sia nel senso di libri di un “genre” particolare, come può essere il fantasy o il giallo in paperback, sia nel senso di libri universalmente considerati “da donne”.

Una delle categorie più bristrattate e denigrate dai presunti lettori di “libri veri” è quella che gli anglofoni chiamano young adult literature (o YA, per gli amanti delle abbreviazioni).
Noi italiani ci limitiamo a dire “libri per ragazzi”, il che vuol dire tutto e nulla, se consideriamo il fatto che spesso in quest'ambito usiamo la parola “ragazzi” per parlare dei bambini.
Ma torniamo a noi.
Il mondo è pieno di persone convinte che i libri per ragazzi siano semplici, banali e aproblematici. E alcuni lo sono; questo è indubbio. Però non posso fare a meno di pensare che dietro questo atteggiamento monolitico ci sia, tra le altre cose, una vocina che intima ai denigratori del genere di gonfiare il petto e assumere una bella posa mussoliniana.

Sostenere che la young adult literature in toto sia ciarpame è un po' come seguire le orme di Martin Ames, che qualche mese fa dichiarò che l'unico modo per fargli scrivere un libro per ragazzi sarebbe quello di provocargli delle lesioni al cervello. Come a dire: “Sono troppo intelligente e colto per scrivere libri così semplici, banali e aproblematici”.
A questo si aggiunge il fatto che nel mare magnum dei consumatori di libri occupano un posto di tutto rilievo le ragazze adolescenti, come confermano i dati ISTAT anno dopo anno. Il fatto che in Italia le lettrici più forti in assoluto siano proprio loro ha forse contribuito a spostare di qualche metro il fuoco delle nostre rappresentazioni della lettura e della young adult literature in particolare.
Tradotto in parole povere significa che non è così azzardato sostenere che i presunti lettori di “libri veri” vedano questa fetta di mercato come un ambito concepito “per le femmine”. Un ambito Altro, dunque. Un ambito fatto di romanzi sentimentali, copertine rosa, domesticità e vicende frivole.

Tutto ciò per dire che nella redazione di Soft Revolution ci sono persone che non sono per niente d'accordo con questo giudizio lapidario, me compresa. Il nostro atteggiamento non si basa però sul sentito dire o su un'esperienza frammentaria del genere. Si basa piuttosto sulla fame con la quale attaccavamo certi libri quando avevamo tredici anni, sul modo in cui essi hanno contribuito a plasmarci e a renderci – ci permettiamo di dirlo – persone migliori. Ma non solo: alcune di noi hanno mantenuto vivo il loro interesse per la young adult literature, leggendo libri che spesso non sono mai stati tradotti in italiano e che raccontano storie la cui particolarità è trattata con tale sapienza da risultare poi universale agli occhi e al cuore del lettore.
E' a partire da queste premesse che abbiamo deciso di inaugurare una nuova rubrica, nella quale cercheremo di selezionare per voi il meglio della young adult literature che ci capita tra le mani, con particolare attenzione per i testi più difficili da incontrare in Italia.


My So-Called Books si apre oggi con la presentazione di Wintergirls di Laurie Halse Anderson che, a differenza di quanto appena detto, è stato recentemente tradotto in italiano (Giunti, 2010). Un mese fa l'ho addirittura incontrato nel reparto libri dell'IperCoop di Trento.
All'epoca questo rendez-vous non mi aveva stupita particolarmente, ignara com'ero del contenuto del libro. Ne avevo letto solo qualche recensione entusiasta, che mi aveva spinta ad ordinare un'economissima versione paperback inglese. Il minimo comun denominatore di queste presentazioni potrebbe essere riassunto in questo modo: “Non chiamatelo semplicemente “libro sull'anoressia”, perché la faccenda è molto più complessa di quanto quest'espressione suggerirebbe”.

Ecco, dicevo che ora il pensiero di incontrare Wintergirls sugli scaffali di un supermercato mi turba, così come mi turba il guardarne la copertina mentre scrivo queste righe. Mi turba per una miriade di motivi, primo fra tutti l'esperienza del viaggio che ho fatto muovendomi dalla prima all'ultima pagina. Mi turba l'agilità con la quale mi sono immersa nel mondo di Lia, la protagonista, la narratrice affetta da anoressia nervosa. Una volta scesa nella sua claustrofobica quotidianità non ho potuto fare a meno di continuare a leggere, nonostante parte di me volesse evitarmi di assistere alle scene descritte così vividamente da Laurie Halse Anderson.
Wintergirls si apre con la morte di Cassie, il cui corpo senza vita viene rinvenuto in un motel. Le cause del decesso non sono chiare.
Cassie e Lia sono state miglior amiche per molti anni, eppure la seconda fa di tutto per non mostrarsi colpita dalla notizia della morte della prima, che rimbalza sul suo televisore mentre conta le calorie della sua colazione, cercando di ignorare i trentatré messaggi che Cassie le ha lasciato in segreteria la sera in cui è morta e ai quali lei non ha risposto.
Queste sono dunque le premesse di un romanzo durissimo, che parla di famiglie frammentate e tenute insieme dall'esistenza di figlie schiacciate dal peso al quale questo ruolo indesiderato costringe. Ma non solo, perché sotto il flusso di coscienza onirico, talvolta allucinato di Lia, possiamo scorgere un'infinità di richiami alla complessità del tema dei disordini alimentari, che l'autrice mostra di conoscere molto bene. Wintergirls non è dunque, come dicevano le recensioni citate sopra, “un libro sull'anoressia”. È piuttosto uno straordinario viaggio nella mente di una ragazza spezzata da desideri antitetici, tormentata da allucinazioni che la spingono ad affamarsi sempre di più, a stabilire per sé stessa mete sempre più difficili da raggiungere, a costo di morire.
È anche, infine, una testimonianza – per quanto romanzata – della pressione che la nostra società impone sulle bambine e sulle ragazze, del modo in questa pressione proveniente dall'esterno venga poi spesso interiorizzata, in forme diverse, più o meno gravi.
Wintergirls racconta la storia di ragazze che non possono fare a meno di affamarsi, tagliarsi o di mangiare compulsivamente e poi “purificarsi” vomitando tutto o riempiendosi di lassativi. Per questo è molto difficile da accettare; è il viaggio nella mente di una persona che ha un'idea della realtà diversa da quella che saremmo portati a dare per scontata.
Eppure il problema dei disturbi alimentari non è marginale, limitato, come tutti noi sappiamo. È un problema diffuso capillarmente anche in Italia.
Leggendo Wintergirls ci ho ripensato. Ho ricordato le amiche dall'apparenza serena ed equilibrata che a dodici anni andavano in cura da uno psicoterapeuta perché avevano smesso di mangiare o quelle che non potevano fare a meno di tagliarsi e per questo venivano additate come pazze. Ho ricordato il periodo in cui cominciai le superiori e poco a poco mi convinsi di essere stupida, perché sembrava che tutti fossero delusi dai miei scarsi risultati scolastici e dal fatto che passassi molto del mio tempo leggendo “altri libri” o guardando fuori dalla finestra. Ho ricordato il periodo in cui persi l'appetito e vari chili, il periodo in cui svenni più di una volta perché proprio non ce la facevo ad essere ciò che gli altri volevano che io fossi, il periodo in cui fingevo che tutto andasse bene mentre dentro mi sentivo un verme.
Non ho avuto problemi paragonabili a quelli delle protagoniste di Wintergirls, però credo che questo libro mi abbia aiutata a rivisitare una fase difficilissima della mia vita, alla quale ripenso molto raramente e dalla quale sono uscita senza mai parlarne con nessuno e solo grazie all'accortezza di mia madre che mi fece cambiare scuola.
Mi trovo dunque d'accordo con il giornalista del Miami Herald che, recensendo questo libro, scrisse: “If you're a teenage girl, Wintergirls might just save your life”; non perché Wintergirls sia un manuale per guarire dai disturbi alimentari, ma perché è quanto di più simile io abbia mai letto ai pensieri autolesionisti che mi attraversavano in quel periodo.
Sapendo per esperienza personale quanto difficile possa essere il mantenersi una bambina e una ragazza sana in una società come la nostra, credo che Wintergirls possa essere d'aiuto non solo a chi vive in prima persona il problema dei disturbi alimentari, ma anche agli adulti e ai ragazzi che desiderino avvicinarsi al tema senza farsi sommergere da tonnellate di inutile retorica.

giovedì 21 aprile 2011

Ho fatto le elementari del libro "Cuore", IV puntata

1 commenti
Dove la protagonista fa di tutto per ricevere apprezzamento e apprende i primi rudimenti di marketing e auto promozione.

Come già accennato nelle puntate precedenti, la mia maestra non mi gratificava particolarmente: per lei ero una piccola peste ribelle con poca voglia di studiare, e appiccicata quest'etichetta in prima elementare non me la sono tolta di dosso fino alla fine. Nessuna possibilità di redenzione per una Maddalena di terza elementare con un desiderio irrefrenabile di un "brava".
Cercavo di comportarmi bene in classe, di svolgere i compiti, di starmene seduta "a braccia conserte" e attenta alla lezione, ma non cambiava nulla. I miei temi non erano apprezzati, il mio modo di "giocare" con la matematica ritenuto infantile (delle mie capacità manuali abbiamo già parlato) e i miei voli pindarici di fantasia men che meno. Questo mi portava a candidarmi per missioni suicide e compiti ingrati, come quando ho fatto la "dama di compagnia" durante la lunga ricreazione post mensa a due compagne ingessate: un compito orrido quando fuori brilla il sole e tu vorresti solo andare a correre nel cortile mentre ti tocca stare seduta in una stanzetta. Ovviamente non ci si poteva turnare in questo ruolo, eh no! Anche in questo caso il verdetto era definitivo: dama di compagnia fino ad avvenuta guarigione. Accettato, davvero a malincuore, e senza fiatare, ma non è valso a conquistarmi la stima dell'esigente maestra.
Il fondo però ricordo di averlo toccato durante le vacanze di Natale della quarta elementare.
Prima del tanto sospirato ultimo giorno dovevamo infatti scegliere dalla piccola biblioteca di classe un libro da leggere durante la pausa vacanziera. I libri a disposizione non erano quelli che ad oggi si trovano nello scaffale di una quarta elementare: niente "Battello a vapore", niente "Geronimo Stilton", niente libri con fate, streghe e folletti. Per lo più si trattava di vite di sante, libri edificanti e di formazione. Tutti con una triste copertina e quasi nessuna figura. Uno spasso. La cosa ancor più spassosa era che si veniva implicitamente valutati a partire dalla selezione del libro: chi prendeva un libro troppo corto o uno con un titolo "disimpegnato", sempre che così lo si potesse definire, veniva da subito additato come poco volonteroso. Fu così che, preda del sacro fuoco del "voglio essere riconosciuta", presi in prestito "Le mie prigioni". Ricordo con dolore e sofferenza le settimane di lettura. Mi sforzavo di capire, di seguire la vicenda, di appassionarmi, ma nulla. Il libro era triste, deprimente e in un italiano poco comprensibile. Ricordo che i miei mi guardavano straniti e i parenti, dai quali andavo per le festività, mi osservavano, con il libro in mano sulla poltrona del salotto, con aria dubbiosa. Ma una bambina di nove anni a Natale non dovrebbe leggere qualcosa di più distensivo? Evidentemente no, se la sua spinta al pubblico riconoscimento è tanto alta.
Sforzo mal ripagato. Non ricordo nessun trattamento particolare, nessuna differenza sostanziale fra me, che avevo letto il tomo mefitico, e chi si era dedicato ad una scarna sintesi della vita di Maria Goretti.
Ricordo però una grande soddisfazione scolastica di quegli anni: un bel voto ad un tema svolto a casa, menzionato addirittura in classe.
Si trattava di descrivere "Una bella giornata trascorsa con la famiglia". I temi fatti in precedenza erano stati tutti frutto di un'onesta ricostruzione dei fatti oppure di una fantasia non mediata dal gretto calcolo di cosa potesse o meno incontrare i gusti della maestra, ed erano stati un mediocre fiasco. Quella volta decisi di inventare sulla scorta di quella che, a mio sentore, doveva essere una bella giornata per il mio pubblico monocolore. Descrizione di una domenica in campagna con i miei, il nonno, gli animali, mio padre che torna da caccia (dato vero) e prepara gioisamente con mia mamma la lepre appena catturata (dato fasullo). Io che gioco gaiamente con mio fratello (dato fasullo, ci si dava un treno di mazzate a quell'epoca) e poi aiuto i miei genitori in cucina (dato fasullissimo, che più fasullo non si può). Cornice bucolica, sole, brezza e risate. Un successo di pubblico e critica, avevo fatto breccia nel cuore della maestra e a soli otto anni scoperto le regole base del marketing e dell'auto promozione. Forse alla fine una cosa utile, da tanta frustrazione, l'ho imparata: sviluppare l'empatia e usarla per sopravvivere in questo freddo, personalista ed autoreferenziale mondo.

mercoledì 20 aprile 2011

Come non cambiare l'immaginario: qualche osservazione sul reality show I Used to Be Fat

1 commenti
Non c'è bisogno che mi lanci in una complicata introduzione nella quale dispiegare il mistero dell'imbarbarimento del palinsesto di Mtv. Già sapete di cosa sto parlando. Anche voi vi chiedete dove siano andati a finire i video, persino quelli più cretini. Anche voi avete l'impressione che ci sia qualcosa di immondo nel continuo fluire di reality show doppiati per lo più a caso e nella apparente pretesa della rete di essere portatrice di impegno sociale attraverso alcuni dei programmi che ascoltiamo distrattamente mentre siamo in realtà intenti a fare altro.

Ammetto di essere molto delusa da questa deriva, poiché un tempo trovavo conforto guardando alcuni dei programmi che Mtv proponeva. Non sto parlando solo di Daria, che è quanto di più sacro Mtv ci abbia mai donato, ma anche delle prime stagioni di Made, di Avere Vent'anni, di Jackass e del Brand:New pre moltiplicazione dei canali e successiva soppressione di quello che portava questo nome. Ricordo poi di aver intravisto un paio di puntate di uno show condotto da Andrew WK che, se la memoria non m'inganna, si ergeva trionfante sul labile confine tra completa idiozia e pura genialità.

Oggi è raro che un programma di Mtv metta in moto il mio cervello, mi spinga a provare cose nuove e mi conforti circa il mio permanere nello stato di Caso Umano. Al contrario, è facile che un programma di Mtv intacchi gli angoli oscuri della mia testa e mi suggerisca pensieri cattivi, come “Ti vesti da culo”, “A 23 anni non sei ancora capace di truccarti” e “Se vuoi quel contratto editoriale devi vestirti da donna adulta, cioè devi indossare un abito striminzito, metterti delle scarpe tacco 12 e farti la messa in piega che tutte le ragazzette che vanno al prom si fanno”. (Ci tengo a precisare che l'ultimo consiglio è contenuto in una puntata del programma Plain Jane; non l'ho inventato).
Molto spesso questi programmi sono universalmente deprecabili, nel senso che è molto difficile trovarvi degli aspetti positivi o per lo meno problematici da criticare. Esistono però anche altri tipi di programmi; quelli che si reggono come equilibristi  sull'oceano delle potenziali critiche, uscendone però vincenti.

A colpirmi recentemente è stato proprio un programma che dal mio punto di vista rientra con agilità nella seconda categoria: I Used to Be Fat .
I Used to Be Fat è uno esempio di reality show semi-impegnato in cui una studentessa o uno studente universalmente riconosciuti come grassi decidono di dedicare qualche mese della loro vita (tre o quattro, da quanto ho visto finora) al dimagrimento intensivo. Nel compiere questa impresa i protagonisti di ciascuna puntata vengono aiutati e seguiti da un personal trainer, che tendenzialmente funge anche da pseudo-terapeuta o da buddy.
Il bello di I Used to Be Fat è che, come anticipavo sopra, ha tendenzialmente ottenuto buone recensioni ed è andato definendosi come un programma che aiuta le persone ad aiutarsi da sole. Detta così, sembrerebbe non esserci nulla di male. Anzi, saremmo forse delle stronzette se pensassimo il contrario.
La faccenda diventa però problematica quando decidiamo di entrare nel dettaglio, di analizzare non solo gli obiettivi generali del programma e la gioia che vediamo sui volti delle persone che sono riuscite a perdere quaranta chili di tre mesi, ma anche tutto ciò che c'è nel mezzo.
Prendiamo ad esempio la seconda puntata, nella quale Marci, una studentessa in procinto di cominciare l'università, dichiara di farsi schifo e di avere come principale obiettivo nella vita quello di entrare negli eleganti vestiti esposti in un negozio dove non hanno la sua taglia.
Sforziamoci di guardare oltre l'idea socialmente condivisa e sedimentata che le persone grasse siano orribili e che il loro compito sia quello di sforzarsi per rientrare nei canoni di ciò che è bello, ovvero della magrezza.
Ascoltiamo cosa viene effettivamente detto.
Marci
Si parla ossessivamente di dimagrimento, poiché questo è ciò che Marci ha richiesto accettando di prendere parte al programma. Se ne parla come di una necessità dettata esclusivamente da finalità estetiche. I pochi accenni all'impatto positivo che la perdita di tutti quei chili avrà sulla salute di Marci sono del tutto marginali, perché – ricordiamolo – l'obiettivo della ragazza è quello di entrare nei vestiti di quel negozio della sua città. A sconvolgermi è soprattutto il fatto che gli autori del programma non si facciano problemi a mostrare scene in cui Marci, una volta accettato di intraprendere una dura dieta, si affami da sola, mangiando solo un piccolo pezzetto di pollo scondito, rifiutando le verdure. Da che mondo è mondo questa non è una dieta sana e bilanciata. Il fatto di mostrare queste pratiche alimentari a centinaia di migliaia di ragazze che magari prenderanno spunto da I Used to Be Fat per intraprendere un precorso simile a quello presentato non mi pare particolarmente lodevole. Allo stesso modo trovo crudele il fatto che ogni puntata preveda un piccolo spezzone in cui la/il protagonista è costretta/o a mangiare un parco, triste e scondito pasto accanto ad una persona che si strafoga di crema di formaggio e altri assurdi cibi americani pieni ingredienti pessimi per la salute ma incredibilmente saporiti. Basta ascoltare i commenti che fanno le dirette interessate per rendersi conto che l'idea sottesa a quel frammento di show è la tortura.

"Venere al bagno" di Pieter Rubens, 1612-1615 circa
Non me la sto prendendo con Marci, badate bene, ma con gli autori di un programma nel quale, sotto un messaggio apparentemente positivo – quello del miglioramento della propria autostima attraverso l'impegno e la perseveranza – si nasconde l'ennesima conferma di un modello estetico univoco, di una femminilità vincolata a sfilze di obblighi e divieti, nel quale le protagoniste devono relazionarsi con dei coach che confermano e rinsaldano la loro convinzione che il grasso sia l'origine di tutti i mali e che le persone grasse siano esecrabili, pigre, un peso per la società. Il format potrà anche apparire lodevole agli occhi di chi condivide l'idea che dentro ogni orribile persona grassa ci sia una bellissima persona magra pronta a sbocciare; una persona magra che finalmente guarderemo senza provare disagio.
Eppure credo che trattare un tema così complesso e delicato con tale leggerezza – la stessa leggerezza dei programmi che rispondono a gravi disagi personali con un nuovo taglio di capelli o con un intervento di chirurgia estetica – faccia un grande torto agli spettatori del programma di cui stiamo parlando.
Ho già accennato alla presentazione di un modello univoco di femminilità. Esso è parente stretto di un'idea statica di bellezza, totalmente slegata dalla storia del concetto stesso, le cui tracce sono riscontrabili in moltissime opere d'arte che ritraggono donne con la cellulite e i fianchi larghi, archetipi di un'idea di bellezza che cozza sonoramente con quella che domina la nostra società odierna.
A tal proposito, ritengo interessante il caso di Gabriella, la protagonista della prima puntata di I Used to Be Fat. Nella presentazione che ce la fa conoscere all'inizio del programma scopriamo che Gabriella è molto brava a scuola e popolare tra i suoi compagni. E' persino stata eletta reginetta della scuola durante il suo senior year. Ciononostante si sente brutta e tende a mangiare in modo compulsivo. Dichiara inoltre, come farà Marci nella seconda puntata, di aver cominciato a sentirsi brutta e inadeguata durante le scuole elementari, quando veniva chiamata “grassa” da alcuni dei suoi compagni. Guardando delle foto dell'epoca però non posso fare a meno di notare come né Gabriella né Marci fossero particolarmente sovrappeso.
Da come viene presentata la loro storia, sembra che lo stigma imposto sui loro corpi dai compagni di classe – quello di persona grassa – sia progressivamente divenuto realtà. Il problema non è dunque circoscrivibile al corpo di queste ragazze, che per anni sono state prese in giro al punto da non uscire quasi più di casa (come nel caso di Marci) o dal sentirsi costrette a fingere di stare bene, pur covando della sofferenza inespressa (come nel caso di Gabriella). Il fatto di intervenire su di loro aiutandole a perdere quaranta chili in tre mesi risolverà forse una parte dei loro problemi, come quello di entrare nei vestiti desiderati, ma non interverrà sull'idea rigida e monodimensionale di bellezza con la quale tutti noi dobbiamo confrontarci. Non aiuterà a mutare l'immaginario condiviso, a leggittimare qualsiasi tipo di immagine corporea e a prevenire il disagio provato dai bambini e dalle bambine costretti a misurarsi con modelli costruiti con Photoshop. In poche parole, non eviterà alle piccole Marci e Gabriella di oggi di essere umiliate dai compagni e non fornirà loro gli strumenti critici per affrontare le prese in giro e tutto ciò che ci sta dietro.

A tal proposito, concludo segnalando un bel post di Tasha Fierce dal titolo Body Love and Fatness as Choice, che introduce il pressoché inesplorato tema della scelta di una forma corporea sanzionata socialmente, che fa parte dell'altrettanto consigliata serie di post di Bitch Media che porta il titolo di Sex and the Fat Girl.

martedì 19 aprile 2011

Introducing Peggy Oki

0 commenti

Di recente mi è capitato di vedere il film “Lords of Dogtown” di Catherine Hardwicke, datato 2005. Pur avendone spesso sentito parlare, non mi era riuscito di vederlo prima di quest’anno; spero lor signori lettori vorranno perdonare questa mia mancanza di tempestività.

Per chi non lo sapesse, il film racconta la vera storia di un gruppo di ragazzi che negli anni Settanta rivoluzionarono la pratica dello skateboarding ( il “Dogtown” del titolo è un quartiere degradato di Los Angeles dove il team Zephir - cui questi ragazzi presero parte - viveva, si esercitava, innovava e faceva casino).
Per farla breve, in quegli anni a Venice Beach c’era questo negozio di attrezzature da surf (il “Jeff Ho Surfboards and Zephir Productions Surf Shop”) gestito da - come il nome stesso suggerisce - Jeff Ho assieme a Craig Stecyk e Skip Engblom. Ho ed Engblom (nel film interpretato dal sempre incredibile Heath Ledger, pace all’anima sua) diedero vita in un primo momento allo Zephir Surf Team, coinvolgendo dei ragazzi che frequentavano quella zona compreso Pacific Ocean Park (ex parco divertimenti comprensivo di pontile che in seguito alla sua chiusura nel 1967 divenne punto di ritrovo fisso di questi giovani surfers, future figure mitiche del mondo dello skate) e successivamente allo Zephir Skate Team, i cui componenti sono meglio noti come Z-Boys. Inizialmente lo skate costituiva per gli Z-Boys una semplice alternativa al surf che, con loro disappunto, si poteva praticare solamente alle prime ore del mattino (causa scarsa disponibilità delle onde); ma non passò molto che il loro (dapprima superficiale) interesse crescesse fino a divenire un nuovo (e altrettanto dinamico) modo per esprimere sé stessi. Aggressivi, emarginati, “alieni dello skateboard”, i ragazzi del team erano così: diversi. Cercavano di riprodurre i movimenti che avrebbero realizzato in acqua sulle onde d’asfalto facilmente reperibili in quell’area (cortili di scuole costruiti con pareti d’asfalto inclinate a rialzarli; piscine svuotate per la siccità). Ciascuno di loro aveva un suo stile; insieme cambiarono tutto.
Di questo gruppo di skaters facevano parte anche Tony Alva, Stacy Peralta e Jay Adams (nel film interpretati rispettivamente da Victor Rasuk, John Robinson ed Emile Hirsh) a tutti gli effetti, i veri protagonisti della pellicola - basata tra l’altro su uno script dello stesso Peralta: Alva, primo ad aver ottenuto il titolo di world champion, considerato ad oggi uno dei più influenti skater di tutti i tempi; Peralta, il primo dei tre a capire come autopromuoversi e fondatore della compagnia Power Peralta, nella cui “Bones Brigade” figurano nomi di altri famosissimi come Tony Hawk e Rodney Mullen; Adams che ebbe problemi di droga e scontò un periodo di detenzione per questo, ma che è tutt’oggi riconosciuto come skater autentico nella sua passione, vera scintilla che fece detonare un fenomeno oggi globale.
Oltre ai celebri tre, a completare il gruppo di 12 Z-Boys c’erano Allen Sarlo, Chris Cahill, Nathan Pratt, Bob Biniak, Paul Constantineau, Jim Muir, Shogo Kubo, Wentzle Ruml … e Peggy Oki. Peggy era l’unico membro femminile del team; l’unica Z-Girl, insomma (indicata dalla freccia nella storica foto di gruppo, qui sotto).

Non conoscevo la storia dello Zephir Skate Team prima di vedere questo film, ma mentre lo guardavo non mi era del tutto sfuggita la fugace presenza di un’attrice (Stephanie Limb), nei panni, appunto, di Peggy Oki. Come ho detto, è però la triade Alva-Peralta-Adams ad farla da padrona, così non ho scoperto di questa gran donna che dopo essermi documentata (a film concluso) in rete, in seguito ad un irresistibile attacco di scrupolosità. Quello che segue è ciò che ho scoperto.

Surfista e skater professionista, ma anche artista e convinta ambientalista, Peggy Oki è una donna da stimare davvero. Non solo era l’unica ragazza a gareggiare per la Zephir decine d’anni fa, ma mostra di avere davvero un cuore d’oro con i suoi progetti a difesa e tutela degli animali in via d’estinzione.
Da sempre interessata alla causa delle balene, Peggy ha avviato nel 2004 un progetto (il “1400 Origami Whales”) tramite il quale intendeva richiamare l’attenzione su questa tematica sempre più scomoda e il più delle volte sottovalutata nella sua gravità, quale è la caccia alle balene.
L’idea di base per il progetto le venne da una vecchia credenza giapponese secondo cui la realizzazione di un migliaio di gru in carta (origami, appunto) permetterebbe di veder esaudito un proprio desiderio (come per esempio il guarire da una malattia) proprio da una gru, che in Giappone viene considerato animale sacro.
Invece che il consueto migliaio di origami, Peggy preferì realizzare 1400 piccoli origami a forma di balena (tante le balene che sarebbero state uccise nel 2004, tra Norvegia, Islanda e Giappone). Il totale fu poi di 2285 origami (ne vennero aggiunti 885, a rappresentazione dell’incremento incontrollabile di balene sterminate fino ad allora). Il progetto venne proposto al Santa Barbara Whale Festival, poi a WhaleWatch.org e WSPA.org (sito della Società Mondiale per la Protezione Animali) e vide la partecipazione di diversi volontari provenienti da tutta l’America. Quest’idea prese poi il largo tanto che nel 2007, attraverso un’ancor più vasta partecipazione pubblica, è stata realizzata una sorta di tenda composta di 30000 origami a forma di balena; una poderosa dichiarazione visiva e insieme commemorativa di tutti questi animali uccisi sin dal 1986 (anno in cui la Commissione Internazionale per la Caccia Alle Balene – la IWC – aveva istituito una moratoria alla pratica della caccia commerciale che poi molti paesi membri finirono con l’ignorare). Nel 2007, la tenda è stata esposta al PAC (Alaska Center for the Performing Arts), durante il 59simo incontro della IWC e, successivamente, all’ Alaska Oceans Festival. Alta 1,5 metri e larga più di 121, questa tenda è stata appesa in modo tale da ricreare un labirinto di corridoi, attraverso il quale i vari visitatori potevano smarrirsi, meravigliarsi e riflettere.


La tenda è stata esposta anche all’isola di Maui, per un paio d’anni, accolta ogni volta con grande piacere e commozione dalla popolazione locale. Nel filmato qui sopra, girato da un visitatore, potete avere un'idea di cosa sia questo progetto (in apertura del video è Peggy in persona a parlare). Migliaia di persone, bambini, ragazzi, adulti (volontari e provenienti da ogni parte del mondo) si sono affiancati a Peggy – e continuano a sostenerla – nella realizzazione di origami per questo progetto, al fine di richiamare l’attenzione sulla pratica barbara del whaling. I vari origami che vengono realizzati recano con sé, chi più chi meno, la firma di chi l’ha realizzato o un messaggio di sensibilizzazione sul tema. Ogni anno che passa, continuando imperterrita la caccia alle balene, 2000 nuovi origami si aggiungono agli altri già realizzati a simboleggiare il numero sempre crescente di animali uccisi.
Nel 2009 il progetto si è ampliato nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica anche nei confronti del Delfino (Hector’s and Maui’s dolphin) della Nuova Zelanda, pericolosamente in via d’estinzione.

Peggy Oki ha studiato biologia ambientale e ha conseguito un Bachelor of Arts in pittura. Il suo impegno nella lotta allo sterminio dei cetacei prosegue tuttora, accompagnato dalle sue storiche passioni quali l’arte (la natura tema ricorrente dei suoi dipinti) e quegli sport solitamente considerati “maschili” come il surf, lo skate e persino l’arrampicata su roccia. Ancora oggi è invitata ad alcuni eventi sportivi (ad esempio contest locali per giovani skaters) come ospite d'onore o per ricoprire i panni di giudice di gara. Vegana, programma i giorni in cui fare a meno della macchina e cerca di tenersi lontana dalla tv. Nel 2010 è stata eletta dal Santa Barbara Indipendent ‘local hero’. Donna tutta d’un pezzo dal sorriso estremamente rassicurante, Peggy Oki è anche insegnante di arte nel City College di Santa Barbara, illustratrice e grafica free-lance, proprietaria del marchio “Oki Design” che realizza biglietti d’auguri, e molto altro. Da noi non è molto famosa ed è un piacere poterle dare un po’ di visibilità. Per maggiori informazioni sui suoi progetti, visitate il sito www.peggy-oki.com (solo, armatevi di pazienza nel visitarlo ché non è esattamente user-friendly).
E se volete imparare a fare il suddetto origami:

mercoledì 13 aprile 2011

Ho fatto le elementari del libro "Cuore", III puntata.

4 commenti
Episodio monografico sui lavoretti natalizi, con breve excursus sui fioretti da colorare.

Un'altra delle iatture del periodo pre natalizio (come di quello pre pasquale) erano i lavoretti natalizi. A partire da metà novembre, un'ora alla settimana era dedicata all'ideazione e realizzazione dei pregevoli manufatti da recare in dono ai genitori in occasione del santo Natale. Nulla di particolarmente sconvolgente in tutto questo, non fosse altro che la mia maestra assolveva questo compito "creativo" con lo stesso entusiasmo con cui una persona si reca a farsi togliere i denti del giudizio: che la cosa sia il più possibile rapida, pulita e precisa. Normalmente il lavoretto era a tematica sacra: piccolo presepe in polistirolo e materiali di riciclo, stella cometa porta candela, angioletto con aureola in porporina. Ovviamente tutto uguale e standardizzato senza possibilità di modifiche creative, nemmeno di piccola portata. Io non ero una bambina particolarmente propensa a dedicarsi ad attività pseudocreative che di creativo non avevano nulla: o si permetteva di dare un "tocco personale" alla mia creazione, o diventavo poco collaborativa. Già alla scuola materna ricordo un piccolo scontro sulla realizzazione di un murales da titolo "La mia casa" nel quale, con una propensione per l'horror vacui, volevo continuare ad aggiungere particolari mentre le maestre mi intimavano di finire colorando semplicemente lo sfondo di blu. Date queste premesse era praticamente impossibile che io riuscissi a compiere il mio dovere artigianale secondo il criterio di bravura della mia maestra. Bisogna poi aggiungere che nei lavori di precisione ero una frana totale: colorare perfettamente nei bordi e senza ripassare, stendere la tempera in modo omogeneo, ritagliare secondo i contorni e non a zig zag, disegnare qualcosa di anche vagamente decente erano capacità delle quali madre natura non mi aveva fornito di default. Il fallimento era dietro l'angolo. Per questa ragione, anno dopo anno, venni affiancata dalla migliore della classe nella realizzazione del mio manufatto di pregio: indi... quasi mai il mio lavoretto era davvero mio. Teoricamente il senso di un lavoretto dovrebbe essere quello di donare ai genitori qualcosa di fatto a mano e con il cuore dall'alunno. Nulla di più lontano dal vero. La mia stella portacandela aveva i bordi decorati dalla maestra, il mio presepe madonna, bambinello e san Giuseppe incollati dalla migliore della classe, lasciamo perdere la lunga sequela di galline pasquali. Tutto doveva essere bello, ordinato e standardizzato. Abbandonando per un istante la struggente amarezza di questo flash back vorrei soffermarmi su un'ulteriore pratica rituale, questa volta pre pasquale: il rito dei fioretti da colorare alla madonna.
All'inizio della quaresima venivamo tutti dotati di un pieghevole sul quale erano stampati dei fiori, grandi, medi e piccoli, da colorare. Ogni fiore era un fioretto alla madonna: non mangiare le caramelle per una settimana era un fiore grosso, non vedere la televisione un giorno un fiore piccolo. Ovviamente nessuno poteva farsi garante dell'onestà della colorazione dei vegetali, ma esisteva un sistema di fiducia che faceva si che i fiori colorati dalle bambine "brave" fossero sicuramente veritieri e quelli delle bambine meno brave fasulli. Se coloravo un fiore grosso mi si chiedeva subito e con sospetto a che cosa corrispondesse. Il più della volta non veniva considerato un fioretto valido, anche se rare volte ricevevo l'assenso, se si trattava di un fiorellino piccino picciò.
La domanda di fondo però non è "ma perché tanta mancanza di fiducia?" bensì "quale forma di sadismo porta una persona ad imporre a dei bambini delle elementari rinunce autoreferenziali? Che beneficio viene al mondo se un bimbo non mangia le caramelle per una settimana?". Alla base di questa pedagogia stava non tanto l'educazione per convincimento degli alunni, ma il desiderio spasmodico di accettazione e stima per ottenere la quale si sarebbe fatto di tutto, davvero di tutto. Essendo io un caso patologico sono arrivata a fare cose impensate, davvero stravaganti per una bambina di quarta elementare. Ma di questo parleremo nella prossima puntata.

martedì 12 aprile 2011

"Porco Rosso" di H.Miyazaki

5 commenti

“Un maiale che non vola è solo un maiale.”


Porco Rosso (per gli amici “Porco” e per i nemici “Porcellastro”) è il curioso protagonista dell’omonimo film d’animazione del maestro Hayao Miyazaki (Oscar per miglior film d’animazione con “La città incantata” nel 2003 e Leone d’Oro alla carriera nel 2005), uscito in Italia lo scorso anno, a ben diciott’anni di distanza dalla prima uscita giapponese. Per gli appassionati italiani l’attesa è stata evidentemente più che lunga, ma - si può affermare - ben ripagata. L’adattamento italiano è riuscito ottimamente e le recensioni sono risultate assai positive. La bellissima voce di Porco Rosso è di Massimo Corvo, già doppiatore – tra gli altri – di Morpheus di “Matrix”, Mr. White de “Le iene”, Benicio Del Toro in “21 grammi” e di Jafar in “Aladdin” e il suo sequel.

La storia è ambientata negli anni del primo dopoguerra (la cosiddetta “era degli idrovolanti”, stando ai titoli di apertura) e segue le vicende di Porco Rosso, ex pilota dell’aeronautica italiana che a seguito di un maleficio vive costretto nei panni di un maiale. La sua bizzarra condizione lo isola dal resto degli esseri umani, anche se con alcuni di questi intrattiene comunque un buonissimo rapporto. Porco ora è un esperto cacciatore di taglie perennemente sulle tracce dei “Pirati del cielo”, degli scalcagnati criminali divenuti tormento delle varie navi in transito lungo l’Adriatico. Desiderosi di sbarazzarsi del maiale, i pirati non esitano a chiedere aiuto all’abile pilota americano (“ma con una nonnina per un quarto italiana”) Donald Curtis. Dal primo scontro tra i due, l’idrocaccia rosso di Porco non esce affatto indenne, tanto che il pilota si vede costretto a portarlo a riparare presso la fidata ditta “Piccolo” di Milano. Il vecchietto che la gestisce è ora affiancato dalla nipote Fio, appena giunta dall’America: sarà lei a doversi occupare della messa a nuovo del velivolo. Le iniziali reticenze di Porco (una progettista di 17 anni, femmina? Stiamo scherzando?) vengono superate con facilità quando Fio mostra di essere competente quanto determinata ad eseguire un buon lavoro. La spigliatezza della giovane conquisterà presto il duro cuore di Porco e i due diverranno grandi amici. Sarà proprio lei, anzi, a salvare l’eroe da un’imboscata dei pirati della banda “Mamma Aiuto” e a proporre un’ultima sfida tra lui e l’americano Curtis: in nome dell’onore che, si sa, è tutto per i piloti di idrovolanti.

“Io, sapete, sono cresciuta ascoltando racconti sui piloti di idrovolanti sin da quando ero piccola. ‘Non esistono uomini più gradevoli di coloro che pilotano gli idrovolanti’, il mio nonnino lo diceva sempre. E questo perché sia il cielo che il mare, entrambi, lavano gli animi di tutti loro. Per questo i piloti di idrovolanti sono più impavidi dei marinai e sono più fieri dei piloti di semplici aeroplani … Per loro ciò che è più importante di tutto non sono né le donne né il denaro, bensì l’onore!”

Nient’affatto timida, volonterosa e disinvolta affarista, Fio Piccolo è un bel personaggio femminile nella storia di Miyazaki, cui si affianca la sofisticata Gina, cantante dell’Hotel Adriano (tappa fissa dei piloti dell’Adriatico, criminali e non). Gina è una presenza anomala in un contesto rozzo e grossolano come quello dei piloti di idrovolanti. Paciera, in sua presenza ogni diatriba tra bande viene meno (entro cinquanta chilometri dal suo locale loro non lavorano; parola di pirata). Sposata per tre volte con dei piloti e per tre volte ritrovatasi vedova, conosce Porco (originariamente noto col nome di Marco Pagot) da sempre e ne è - neanche troppo segretamente - innamorata. Porco (che lei e solo lei chiama ogni volta “Marco”) pare rifuggire quest’amore, nonostante le sia affezionato: come una sorta di affascinante e impenetrabile Humphrey Bogart in versione suino-antropomorfa (impermeabile, sigarette e panama contribuiscono a questa suggestione), il pilota non può stare con Gina e non si capisce se ciò sia dovuto al maleficio di cui è vittima o se sia proprio retaggio del suo spirito libero. In ogni caso, alcuni scambi di battute tra i due sono memorabili nella loro tragicomicità (al telefono, Gina esprime la sua preoccupazione per questi continui scontri tra piloti, dicendogli: “Marco, tu prima o poi finirai come maiale arrosto; io non lo voglio un funerale del genere”. Al che lui risponde con una citazione da urlo, che è quella che ho piazzato in apertura dell’articolo e lei gli chiude la bocca con uno “STUPIDO!”, indignata).
Come in altri film, anche qui insomma Miyazaki ci mostra diversi universi femminili trattati con cura e delicatezza. In un’altra apprezzabile sequenza vediamo comparire, in massa, le parenti del Sig. Piccolo (un tripudio di nipoti, figlie di nipoti, mogli dei figli, nonnine) pronte a dare il massimo per assicurare a Porco Rosso un soddisfacente pernottamento e una valida manodopera; c’è un botta e risposta tra vecchiette e maiale che fa assai sorridere, nella sua genuinità.

Storia sull’onore e sull’amore, “Porco Rosso” è un omaggio di Miyazaki alla sua grande passione per l’aviazione. L’attenzione ai dettagli è ammirevole, in tal senso: dalla riproduzione dei velivoli, ai costumi dell’epoca, ai motori (in una scena, il Sig. Piccolo mostra a Porco un motore “targato” GHIBLI: non è un omaggio allo studio d’animazione presieduto dallo stesso Miyazaki, al contrario, è un riferimento al reale bimotore multiruolo Caproni degli anni Trenta, detto “Ghibli”, da cui poi lo studio giapponese ha preso il nome), senza contare le citazioni (il nome della banda di pirati "Mamma Aiuto" si richiama a “Mammaiut”, soprannome di un idrovolante - il CANT Z501 - impiegato nella seconda guerra mondiale, che risultava difficilmente difendibile in caso di attacco aereo; di lì ha poi ha tratto ispirazione il grido del 15° stormo dell’Aeronautica Militare Italiana). Anche il vero nome di Porco, Marco Pagot, è un omaggio: i fratelli Pagot (Nino e Toni) erano i fumettisti italiani ideatori del famoso Calimero.
Con fantasia e una buona dose della poesia tipica dei suoi lavori (che qualche critico ha giudicato però minore, rispetto ad altri suoi film successivi) Miyazaki ci racconta le improbabili vicende di questi assi del cielo, ciascuno fuorilegge a suo modo (Porco, pure, è ricercato dalle autorità per “non collaborazione anti statale, espatrio e rimpatrio clandestini, idee degenerate, crimine d’essere un maiale di sfrontata indolenza ed esposizione d’oscenità” - stando agli ultimi aggiornamenti del suo vecchio commilitone, ora Maggiore, Ferrarin), all’interno di un’Italia in difficoltà sotto il giogo fascista. In questo quadro che alterna sapientemente iperrealismo e parentesi immaginose (la "storia" che Porco racconta a Fio per farla dormire, ad esempio), vediamo come sia impossibile trovare applicazione per le tradizionali categorie Buono-Cattivo ; guardando alla contrapposizione Porco Rosso-Pirati, per lo meno (questi ultimi infatti sono degli antagonisti altamente anticonvenzionali, nella loro goffaggine, così come Porco è difficilmente etichettabile come classico eroe senza macchia). I nemici più evidenti di Porco Rosso, semmai ci sia bisogno di identificarli, sembrano essere proprio i fascisti: da dopo la guerra, infatti, la polizia gli sta alle costole, costringendolo ad una fuga continua. Quando l'ex compagno d'armi Ferrarin gli proporrà di rientrare in aeronautica - e tornare quindi a collaborare con lo Stato - la risposta di Porco è indimenticabile nella sua schiettezza e perentorietà: “Piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale”. Non c'è "sponsor" che tenga. Meglio continuare a volare "da maiale" e con i propri proventi, piuttosto che essere uno di loro.
Dato che (notizia di questi ultimi giorni) è stata vergognosamente avanzata in Senato una proposta per abrogare la norma che vieta la ricostruzione in qualsiasi forma del defunto partito fascista, c’è solo da sostenerlo, un protagonista così. Non lo trovate ... educativo?


In un'intervista, Miyazaki ha dichiarato che "Porco Rosso" avrà un sequel, ambientato questa volta ai tempi della guerra civile spagnola. Il titolo previsto sembra essere "Porco Rosso: the last sortie"; i più interessati tengano alte le antenne, ho buone ragioni per credere che non deluderà, come secondo episodio.

domenica 10 aprile 2011

Dissipatio H.G.

0 commenti
Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di “loro”. Puramente verbali, due (da notiziari della radio, suppongo): fallito dirottamento e riuscito stupro di una ragazza in un aereo dell’Olympic Airways; e quest’altro in inglese, forse dell’inattendibile Voice of Europe: A favorite Polish joke goes, we feign to work, the State feigns to pay us. E due immagini: una bottiglia, con corona reale sullo sfondo, e la scritta in rosso: Seagram’s Canadian Whisky. Il quadratino bianco del campo di tennis dietro l’Hotel Bellevue, nell’oculare del mio binocolo. La memoria involontaria non ha altro, e questi ricordi vi fluttuano insistenti e vaghi.

Inizia così questo breve romanzo di Guido Morselli, classe 1912, bolognese di nascita, milanese d'adozione. Un libro strano questo Dissipatio H.G. già a partire dal suo titolo apparentemente enigmatico. Dissipatio humanis generis: una scomparsa è al centro del romanzo, la scomparsa dell'intera umanità. Il protagonista, reduce da una nottata trascorsa all'interno di una caverna, nella quale si era recato nel tentativo di togliersi la vita (quasi una premonizione della fine dell'autore, morto suicida nel 1973), emerge nell'alba di un nuovo giorno dai caratteri inquietanti. Nessuno per la strada, nessuno al paese, nessuno dei conoscenti del contado, nessuno che risponda ai telefoni, nessuno oltreoceano, nessuno in aereoporto, nessuno alla vicina base militare. Il nulla tutto intorno. Non ci sono corpi: non siamo in uno scenario post atomico. La natura tutta intorno continua a vivere secondo i suoi ritmi e le sue regole, del tutto indifferente alla scomparsa dell'animale uomo. Si sviluppa così il "viaggio" allucinato del protagonista attraverso quest'infinita solitudine. Un percorso di angoscia, costruito secondo i canoni di un modernismo descrittivo (già presente nelle poche righe d'incipit riportate) che non indugia però in pagine e pagine fotografiche. La prosa è asciutta e concisa, forse a tratti tecnica, come quella di pochi altri scrittori italiani in grado di esprimersi compiutamente e senza ripiegamenti manieristici attraverso questo stile (mi viene in mente ad esempio Gadda, ma anche, e più recentemente, Del Giudice, di cui ho già scritto su queste pagine). Un romanzo davvero contemporaneo. La cosa mi ha stupito, devo dire, perché raramente si trova in uno scrittore cronologicamente "datato" tanta modernità di percezione e tanta tensione narrativa volta al "futuro". Questo libro potrebbe essere stato scritto l'altro ieri: basterebbe sostituire le cabine telefoniche con i cellulari. Fatto. E' un romanzo filmico, che bene si presterebbe per fungere da sceneggiatura per un'allucinata visione di David Lynch. Forse per questo non è stato capito e Morselli è morto senza veder pubblicato nessuno dei suoi romanzi, successivamente editi, con successo, da Adelphi. Morselli non scriveva per il suo tempo ma, a differenza di altri autori suoi contemporanei, non ha smesso di parlarci e, anzi, si ambienta bene in questa primavera 2011.

venerdì 8 aprile 2011

AMERICAN ICONS: Chuck Taylor e le "All Stars" della Converse

4 commenti
Noi le abbiamo sempre chiamate “All Star”, ma in America sono invece più famose come “Chucks” o “Cons”. Il loro nome completo è “Chuck Taylor All Stars” e sono le scarpe da ginnastica in tela e gomma più famose al mondo. Credo non sia un male azzardare che noi tutti ne abbiamo posseduto almeno un paio (o conosciuto, se non altro, qualcuno che le ha avute). Il nome del modello, a farci caso, è lunghissimo. Ma perché si chiamano così? E soprattutto, chi è CHUCK TAYLOR? È un personaggio di finzione o è esistito veramente? Sebbene siano stati in molti a dar per vera la prima ipotesi, Chuck Taylor è esistito sul serio. A voler ben guardare, la Converse si è sempre premurata di farlo presente a noi consumatori (metti attraverso le immagini d’epoca di squadre di pallacanestro che erano stampate sulla quella carta sottile che avvolge le scarpe nella confezione d’acquisto; fino al più recente cartellino allegato in confezione ad una delle scarpe, che sul retro recita “An american original…” spiegando in poche righe la storia delle scarpe e di Chuck, nell’altro verso ritratto in canottiera, pantaloncini e mani dietro la schiena). Salvoqualche nozioncina basica – “Una volta le scarpe si usavano per giocare a basket” o “Taylor era uno sportivo” (sì, ma di cosa?) – non siamo mai stati veramente interessati a capirne di più. La confezione si apriva in un battibaleno e, sistemati i lacci, ci mettevamo le scarpe e tanti saluti.

La seconda puntata della mia rubrica icon-related è dedicata proprio alla storia di Chuck e, indirettamente, di una scarpa che ha fatto scuola.

Le storie sono due: quella della Converse e quella di Chuck. Si incontreranno all’inizio degli anni Venti.
Nato nel 1901 nello stato dell’Indiana, Charles “Chuck” Hollis Taylor fu fin da giovanissimo un appassionato di basket (veniva considerato un asso in materia già dai tempi delle superiori). Una volta terminato il liceo cominciò a giocare da professionista in alcune squadre di Detroit (Michigan) e Fort Wayne (Indiana): a quei tempi il basket non era ancora organizzato in “leagues”, come ora, e Taylor si accontentava anche di piccoli compensi mentre girava per tutto il paese con i Celtics di Boston, i Germans di Buffalo e i Firestones di Akron (Ohio).
La Converse Rubber Co. aprì i battenti nel 1908 a Malden, Massachussets. Inizialmente la ditta si occupava della produzione di galosce** e di altri tipi di calzature di gomma la cui richiesta variava a seconda delle stagioni. Dopo alcuni anni di attività ci si rese conto però che il giro d’affari andava ampliato e che, perché questo avvenisse, sarebbe convenuto allargare la propria produzione alle scarpe da ginnastica. Proprio a cavallo dei primi anni Dieci, infatti, il basket aveva iniziato a guadagnare popolarità, così la Converse decise che avrebbe provveduto a creare delle calzature che potessero essere indossate proprio dai cestisti. Dopo un periodo di ricerche e studi, la ditta mise a punto la prima versione della scarpa sportiva per giocatori di basket professionisti: era il 1917 e il primo modello di “All Star” venne realizzato in una tonalità marrone con delle rifiniture nere.
Negli anni Venti le Converse All Star immesse nel mercato erano praticamente tutte in tela o cuoio nero; la suola era costituita da uno spesso strato di gomma e la tela (o il cuoio) erano rialzati all’altezza della caviglia, creando quindi quella suggestione da “scarpa alta” che noi affezionatissimi consumatori conosciamo bene.
Ciononostante, le vendite procedevano a rilento. Fu con l’avvento di Chuck Taylor che le cose presero una svolta inaspettata.

Fin dai tempi delle superiori, Chuck Taylor si era abituato a portare le scarpe da basket della Converse. Ne era così entusiasta che quando nel 1921 si mise a cercare un impiego, si recò proprio agli uffici di vendita della Converse di Chicago, impressionando talmente il direttore da ottenere subito il posto. Il direttore - tale S.R. “Bob” Peltz - era un grande appassionato di sport e non ebbe fatica a prendere in simpatia questo giovanotto dell’Indiana con un interesse molto simile al suo. La sua scelta di assumere Chuck Taylor fu quanto di meglio poteva accadere all’Azienda (l’assunzione di Chuck, inoltre, aprì la strada a molti altri professionisti del basket che, negli anni a venire, sarebbero entrati a far parte del comparto amministrativo della stessa Converse). Non passò molto tempo prima che i suggerimenti di Chuck in merito alla maggiore flessibilità e comodità che le “All Star” avrebbero potuto avere venissero messi in pratica rendendo quelle scarpe il gioiellino che conosciamo ora. Ma la storia non finisce qui.

Chuck Taylor era molto più che un semplice addetto alle vendite: egli infatti consacrò il resto della sua vita a far conoscere le “All Star” della Converse e il gioco del Basket al resto d’America. Non aveva nemmeno una residenza fissa; stando alle testimonianze di coloro che lavorarono con lui, teneva le cose più importanti in un armadietto interno al magazzino di Chicago e dormiva nel sedile posteriore della Cadillac bianca con cui si muoveva per tutto il paese. Aveva molti amici e volergli bene non sembrava difficile: era una persona con i piedi per terra, oltre che molto carismatica. Fumava la pipa e aveva una pronuncia strascicata tipica dell’ Indiana (il primo presidente della Converse, Steve Stone, non nascondeva di essergli molto affezionato, mentre lo ricordava in queste pose). Moltissime le sue conoscenze in ambito sportivo (“conosceva ogni coach nel paese”) ed erano in molti gli allenatori che si affidarono a lui quando cercavano un lavoro (“Se eri un allenatore e volevi trovare un lavoro, chiamavi Chuck Taylor. I direttori sportivi si rivolgevano a lui ogniqualvolta avessero bisogno di un nuovo coach”***); viaggiando in lungo e in largo per gli States, inoltre, ebbe la possibilità di tenere moltissime lezioni di basket ai ragazzi delle varie località cui approdava.
La sua attività interna alla Converse fu davvero notevole: sua fu anche l’idea di creare nel 1922 un annuario (il “Converse Basketball Yearbook”) che, tra le altre cose, aiutò la Converse a farsi pubblicità grazie alle numerose fotografie di giocatori di basket All Star-muniti che venivano ivi mostrate. L’annuario venne pubblicato sino al 1983 e, ogni uscita era attesissima dai (sempre più numerosi) giovani appassionati di basket che speravano vi fosse stata pubblicata la foto della propria squadra o che vi fosse un articolo dedicato ad uno dei loro giocatori preferiti. L’album contribuì alla promozione della cultura del basket e alla celebrazione dell’operato dei molti coach e atleti che, in questa disciplina, investirono moltissime energie.



Nel 1923, a soli due anni dalla sua assunzione, la Converse “premiò” Taylor inserendo il suo nome sulla scarpa e gettando così le basi di un mito****
Negli anni Trenta, Taylor disegnò il nuovo modello di All Star alte (high top) per le Olimpiadi del 1936: completamente bianche, avevano delle rifiniture in rosso e blu (molto patriottiche); in poco tempo divennero popolarissime, al pari dei più tradizionali modelli in tela nera. Ormai queste scarpe erano le calzature ufficiali dei giocatori di basket americani (professionisti e non); un dominio incontrastato.
Durante la guerra, Chuck Taylor collaborò con una Divisione Speciale dell’Esercito che aveva un ruolo molto importante nel mantenere alto il morale dei soldati e allenata la loro forma fisica. Chuck allenò gli “Air-Tecs" di stanza a Wright Field (Ohio): una squadra pressoché imbattibile che, tra il 1944 e il 1945, girò il paese gareggiando con squadre di collegiali o contro altri gruppi di militari. Sembra impossibile ma fu proprio in quegli anni che il basket raggiunse l’apice della sua popolarità e venne imparato da tutti gli americani. Grazie ad un libro emanato nel ’43 dalla stessa Divisione Speciale, in cui venivano esplicitate le precise regole del gioco, moltissime persone iniziarono ad avvicinarsi a questo sport considerato all’unanimità eccellente per mantenersi in forma e divertirsi senza bisogno di eccessive spese. Molti esperti hanno osservato come prima di allora ognuno tendesse a personalizzare le regole a proprio piacimento (squadre di college e professionisti inclusi), mentre ora, grazie ad un regolamento condiviso, tutti lo praticavano allo stesso modo; il basket aveva smesso di essere considerato un sport elitario e ora la gente ci si dedicava in massa. Fu grazie all’operato di Taylor e di altri grandi allenatori e giocatori professionisti che ciò fu possibile.


Inizialmente sposato con un attrice, è del secondo matrimonio che si parla più spesso. Fu in tarda età con Lucille “Lucy” Hennessey. Nel 1957, Taylor si era recato a Fulton (Missouri) per tenere uno dei suoi soliti corsi/seminari di basket in un college locale. Lucille, che insegnava inglese in un altro college, era la moglie del direttore atletico dell’istituto in cui Taylor si era recato. In sintesi: i due finirono per fuggire insieme e lo scandalo fu tale che se ne parlò per molti anni a venire.
Sempre nel 1957, inoltre, venne introdotto con successo il modello di All Stars basse (low cut), visto come una valida alternativa alle tradizionali High Top.
Durante la sua vita Taylor ricevette numerosi riconoscimenti per gli sforzi compiuti in nome del basket: nel 1958 entrò a far parte della Sporting Good Hall of Fame, nel 1968 della Basketball Hall of Fame e fu il primo portavoce della Converse a guadagnarsi il nomignolo, meritato, di “ambasciatore del basket”.
Morì nel 1969 in Florida, per un attacco di cuore.
Poco dopo la morte di Taylor, la Converse iniziò a risentire della concorrenza sempre crescente di marchi come Nike e Reebok in grado di mettere sul mercato modelli più colorati, comodi e innovativi (con cuscinetti e celle d'aria); molti atleti abbandonarono le storiche All Stars e iniziarono ad adottare queste novità. Ciononostante, dagli anni Settanta le scarpe da ginnastica iniziarono ad essere indossate con frequenza anche al di fuori di contesti sportivi: la loro comodità, rispetto alle scarpe tradizionali, era incontestabile; nacquero allora molte nuove ditte in grado di offrirne agli appassionati i modelli più svariati.
Le “Chucks” divennero in quel momento le scarpe preferite dei ragazzi (ma non solo) e simbolo di una controcultura nascente; moltissimi musicisti iniziarono inoltre a portarle, contribuendo ad incrementare la loro popolarità (allora già alle stelle). Comode, dal design unico, meno costose rispetto ai nuovi modelli della Nike, le All Stars iniziarono così una loro seconda Età dell’Oro. Ora venivano acquistate per lo più perché fashionable, e la Converse non tardò a realizzarne nuovi colori e fantasie (si parla di centinaia e centinaia di nuovi esemplari).

Ad oggi, si calcola che le paia di “Chuck Taylor All Stars” vendute superino gli 800 milioni; ogni settimana se ne continuano a vendere migliaia, in tutto il mondo. Nonostante siano disponibili in innumerevoli colori e texture, i modelli white e black sono sempre i più popolari. La straordinarietà di queste scarpe è che, salvo lievi modifiche, sono rimaste sempre le stesse*****!
In seguito agli avvicendamenti di fine secolo, la Converse è stata acquistata dalla Nike Corporation. Molte fabbriche del Nord America sono state chiuse e la produzione trasferita per la maggior parte nei paesi asiatici (controllate le vostre ultime paia di Converse e leggete dove sono state prodotte: China? Thailand? Vietnam?). La qualità forse ne ha risentito, ma la popolarità del prodotto no di certo.

EPILOGO.

Queste scarpe hanno fatto storia. Almeno, che abbiano fatto la mia, è fuor di dubbio. Ero alle medie quando comprai il primo paio di All Star della Converse. Alte e blu: le adoravo. Pagate 15.000 lire (Bei tempi, come si suol dire). Erano gli anni in cui la Converse stava vivendo la sua crisi più profonda e i prezzi dei vari modelli risultavano conseguentemente più che abbordabili. La passione per queste scarpe è perdurata per tutto il liceo e per gli anni dell'università. Non nego di aver ceduto, negli anni, alla tentazione di comprarmene anche delle versioni “clonate” (pallide imitazioni vendute ad un terzo – se non un quarto – del prezzo delle Originali). Ho strausato pure quelle, ma alle Converse sono sempre tornata. Se avete mai posseduto un paio di Chucks, ve la ricordate la gioia che si prova a vedere che finalmente l' "odioso candore" della scarpa nuova sparisce nel momento in cui gli subentrano plurimi strati di polvere; quando il colore diventa più pallido e la scarpa si sforma adattandosi al piede... e quando ormai sono inservibili, che fitte al cuore a doversene separare! Patetismi (nel senso etimologico del termine) a parte, ho voluto bene a queste scarpe. Altroché! Dovrei, temo, ritenerle responsabili della mia dipendenza (tutt’ora in corso) da scarpe di tela. Immagino che non imparerò mai a portare delle scarpe con i tacchi, a questo punto. Ah ah ah. Pazienza. Tornando indietro, rifarei tutto allo stesso modo.

*L'illustrazione a capo dell'articolo è di Roy Wright
**Chiamate anche calosce, sono delle specie di sovrascarpe fatte per proteggere i piedi dall’umidità
***Cit. Joe Dean, un ex vice presidente del comparto Promozioni
****In molte testimonianze viene indicato il 1923 come data ufficiale dell'apposizione della firma di Chuck al modello "All Stars", ma è mio dovere specificare che altri ritengono più verosimile che ciò sia accaduto nei primi anni Trenta.
*****Per esempio, quando cessarono di essere le scarpe da basket per eccellenza, la scritta interna alla linguetta - dove, sotto “Players Name”, ognuno scriveva il suo nome - venne eliminata.
 
Powered by Blogger