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lunedì 23 maggio 2011

Ho fatto le elementari del libro "Cuore", VI puntata.

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Di grembiuli, d'indecenti minigonne per bambine di 8 anni e di altre amenità.


Quando mi sono iscritta in prima elementare, insieme alla cartella, al diario, ad astucci e quaderni vari, ci hanno fatto comprare anche il grembiule bianco.
Un ottimo modo per rendere i bambini tutti uguali ed impedirgli di focalizzare l'attenzione su cose vacue come la felpa firmata o i pantaloni alla moda; peccato che poi però c'erano gli zaini, le scarpe, la macchina con cui mamma e papà ti venivano a prendere, la bicicletta, il giocattolo e via discorrendo, a ricordarti la tua precisa collocazione sociale. E meno male direi, perché così ci si fa gli anticorpi per tempo, perché se poi arrivi nel crudele mondo delle medie con l'utopica convinzione che "siamo tutti uguali", finisce che ti scontri, nel modo più crudele possibile (quello delle cattiverie che solo i dodicenni-tredicenni possono dire e fare) con l'amara realtà.
Non siamo tutti uguali e dio ce ne scampi: i bambini hanno mille modi per ricordarselo continuamente l'un l'altro.
"La mia mamma mi ha comprato il camper di Barbie"
"Beh...la mia mi ha comprato la villa con piscina e stalla per il bianco destriero"
"..." silenzio e amarezza.
Insomma, il grembiule è stata una pessima idea, maturata con i migliori intenti, ma comunque pessima. Ogni mattina era uno strazio infilarselo sopra i vestiti, abbottonarlo per bene, controllare di non macchiarlo nel giro di pochi secondi (ma perché poi proprio bianco dico io?!), evitare di soffocare perché il colletto stringeva troppo. E poi anche i grembiuli erano diversi: tutti bianchi si, ma alcuni col colletto di pizzo, altri con le alette inamidate, altri con un ricamino tono su tono a motivi floreali. Altro che tutti uguali!
L'unico effetto che sortivano era quello di far imbufalire chi, come me, si sarebbe vestito volentieri da clown, abbinando in modo assurdo colori sgargianti in grado di provocare lesioni oculari ai malcapitati astanti. Desideravo ardentemente sfoggiare inguardabili felpe gialle con delfini blu sopra, magliette con il mio nome e sotto un gatto, pantaloni della tuta in acetato: il buon gusto non è mai stato il mio pezzo forte. Trovavo mortificante questa omologazione e, se non ero ancora in grado di portare avanti una critica strutturata al concetto di uniformità, provavo lo stesso una repulsione istintiva per quella divisa.
Ma con l'avvento della terza elementare ed il pensionamento dell'odiato grembiule, scoprii che non era affatto il peggiore dei mali: il vero male era la moralizzazione dell'abbigliamento fanciullesco.
Un giorno mia madre decise (che idea insana!) di mandarmi a scuola vestita con un maglioncino a righe stretto, una minigonna di tuta arancione, calze pesanti verdi. Come ormai avrete capito dai miei post precedenti, non ero la tipica bambina composta e tranquilla: arrivata in classe mi misi al posto seduta, come mio solito, un pò stravaccata, gambe rigorosamente aperte.
Il commento della maestra non si fece attendere e gridò alla scostumatezza. Come si faceva a vestire in quel modo una bambina che poi non sapeva comportarsi adeguatamente? La minigonna non era certo un capo di vestiario appropriato ad una classe scolastica! Ora, al di là di specifici casi davvero patologici, mi chiedo chi potrebbe, davanti a una bambina di otto anni in minigonna, per giunta molto "maschiaccio", provare qualcosa di diverso da un moto di divertimento. Potevo essere tenera, buffa, comica, ma di sicuro non provocante o scostumata. A ripensarci oggi mi viene da ridere, ma al tempo avevo preso la questione molto seriamente e non avevo più voluto indossare quella gonna per andare a scuola, pur di evitare un'ulteriore mortificazione.
Per non ricadere nello sconforto post traumatico, aggiungo la postilla "altre amenità" a chiusa di questa "favolosa" puntata di Ho fatto le elementari del libro "Cuore": esempi morali che traumatizzano i bambini.
Alcuni anni fa una mia compagna di scuola e cara amica mi disse che stava allestendo uno spettacolo, con i ragazzi della sua parrocchia, su una beata che aveva sacrificato la sua vita per non abortire il figlio che portava in grembo. Immediatamente mi scattò un flash in mente: quella donna la conoscevo bene e non per le lezioni di catechismo o per qualche informazione casuale pervenutami negli anni: era stata uno degli exempla di virtù presentati dalla mia maestra durante le scuole elementari. Gianna Beretta Molla, una donna non comune, pediatra, madre di tre figli, impegnata profondamente nella vita della comunità cattolica in cui viveva.

Durante la sua quarta gravidanza le riscontrano un fibroma all'utero e, pur sapendo che per evitare l'aborto avrebbe sacrificato la sua vita, decise lo stesso di portarla a termine. Morì pochi giorni dopo il parto, lasciando il marito e i quattro figli.
Ho ancora memoria del giorno in cui la sua vicenda ci venne raccontata dalla maestra e ricordo distintamente quello che, da bambina di seconda o terza elementare, pensai del fatto: era una cosa terribile. Una mamma aveva "abbandonato" deliberatamente i tre bambini che già aveva, li aveva privati della sua presenza in nome di qualcosa che, a me, al momento sfuggiva: una promessa di vita. A posteriori posso anche pensare che questa donna abbia fatto la scelta che in cuor suo riteneva più giusta, ma da qui a renderla un esempio da proporre a bambini che a malapena capiscono il senso della loro di esistenza ce ne passa. L'angoscia mi rimase addosso per giorni al pensiero di quello che potevano aver provato i figli rimasti, al pensiero del rancore che dovevano aver maturato per quella sorellina per la quale erano stati privati della madre. Queste cose mi sono servite, alla fine, per maturare una coscienza critica, per scrivere questo post, per dare il mio contributo di "flash back" alla mia amica ma, diciamocelo, si poteva tranquillamente evitare.

mercoledì 11 maggio 2011

Qualcuno gioca sporco

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Qualcuno gioca sporco sulla nostra pelle, mantenendosi però all'interno dei limiti di legge e, magari, facendosi a parole paladino della difesa dei diritti delle donne.
Alcuni mesi fa, su queste pagine, si parlava della recente commercializzazione, all'interno dei negozi del colosso americano della distribuzione Walmart, di una linea di trucchi ideata ed espressamente dedicata alle pre-adolescenti. "Un semplice gioco" sostenevano alcuni, "Chi non ha mai rubato da piccola il rossetto della mamma per truccarsi?" chiedevano altri. Non ritorno sul tema, già ampiamente affrontato da Margherita, e nemmeno voglio soffermarmi su programmi dedicati alle teen ager incentrati sul tema della "linea perfetta". Anche in questo caso infatti c'è chi ne ha già parlato e meglio di quanto potrei fare io.
Il post di oggi nasce invece da una riflessione che facevo alcuni giorni fa mentre cercavo di acquistare un paio di jeans: nulla di più banale. Bene, prima di riuscire a trovare un paio di pantaloni adatti ho fatto numerose prove in diversi negozi della mia città: dalle grandi catene ai semplici negozi del centro. Ragazza dai gusti difficili? Direi di no, semplicemente non riuscivo a trovare un paio di jeans adatti alla mia costituzione. A questo punto si rende necessaria una piccola divagazione biografica: non sono una ragazza particolarmente grassa o particolarmente magra. Secondo le tabelle dell'Organizzazione mondiale della sanità sono classificabile come una donna di corretto peso forma, non sono sproporzionata, almeno non in modo patologico, appartengo, come costituzione, al tipo medio di ragazza mediterranea (il che, vivendo in Italia, a rigor di logica, credo sia comune).
Date queste premesse dovrebbe essere per me abbastanza semplice trovare un paio di banalissimi jeans e invece l'impresa si è rivelata più ardua del previsto. La maggior parte dei negozi che ho visitato infatti vendevano prodotti le cui taglie non erano, evidentemente, tarate sul concetto di "normalità" individuato dalle, sempre molto elogiate, normative mediche europee. Una 40 corrispondeva all'incirca ad una 36, una 42 ad una 38 e così via. Nessun problema particolare, direte voi, basta comprare una 46 e avrai il paio di jeans tanto agognato. Peccato però che la taglia 46 non fosse prevista: troppo grande. Osservo più attentamente i capi d'abbigliamento proposti: sono modelli giovani, spesso di marche di medio costo, rivolti evidentemente ad un pubblico della mia età. Altro grave errore: evidentemente il pubblico non è solamente questo. E qui si scopre l'arcano: ad un'analisi più attenta del target dei negozi e della conformazione dei prodotti, mi accorgo che sono davanti a jeans per ragazze tarati su taglie da bambina. Vita e fianchi strettissimi, gambe lunghe, modello attillato.
Mi fermo a riflettere: quando portavo una 36 (perché c'è un momento nella vita di tutte noi nel quale abbiamo portato una 36)? Quando avevo all'incirca 11-12 anni e la 36 non si chiamava così, ma si chiamava taglia 11-12. Al tempo vestivo abiti studiati per la mia età: cose carine s'intenda, non immaginatemi vestita da damina o con assurdi pagliaccetti, ma erano abiti disegnati da stilisti (mi piace riconoscere il nome di stilista non solo alle grandi firme, ma anche al ragazzo sottopagato che disegna felpe per note multinazionali) appositamente per la mia fascia d'età.

Mi fermo a riflettere: quante dodicenni ora come ora accetterebbero ancora di vestirsi alla Benetton bambini, solo per fare un esempio? Mi guardo intorno e noto che effettivamente il negozio è popolato da ragazzine molto giovani. Forse ho sbagliato reparto? No, sono nel posto giusto, o almeno in quello che fino a pochi anni fa poteva essere considerato il posto giusto e ora, a meno che non si voglia passare per gravi obese, non è più adatto ad una ragazza normale di 26 anni. Cambio negozio, stessa trafila. Mi domando se sia giusto, per le mie coetanee e non solo, vivere con la costante sensazione di essere "fuori dal canone". Conosco ragazze che, mortificate per le continue prove fallimentari di taglie ritenute un tempo idonee a ragazze normali, affrontano diete estenuanti per rientrare nei vestiti di quando avevano 12 anni. 12 anni, praticamente delle bambine. Prima di chiudere con alcune amare riflessioni vi rassicuro sulle mie sorti: ho trovato i jeans e li ho trovati in una catena che utilizza taglie normali, per donne normali e possiede un apposito reparto bambini in cui le dodicenni possono andare a fare spese.
Dopo questa parentesi rasserenante però devo passare alle amare riflessioni: da anni ci sentiamo bombardare da messaggi edificanti e anti anoressia che ci incitano ad accettare il nostro corpo, ad amarci "perché noi valiamo", a fare riferimento a criteri di "salute" e non a modelli assurdi dettati dalla malattia di alcune modelle. Tante belle parole, che però vengono trascinate via dal vento del mondo reale, quel mondo dove è molto difficile sentirsi "normali" non trovando capi d'abbigliamento della propria taglia, spinte in un continuo confronto con lolite adolescenti. L'ipocrisia di questo discorso è evidente, ma forse lo è per me che, fortuna ha voluto, sono nata e cresciuta in un ambiente molto attento a trasmettermi un'immagine reale del mondo e mi ha munita di senso critico. E' lo stesso per altre mie coetanee? Sarà lo stesso per le future ventenni? Non credo.
La seconda amara considerazione riguarda un ulteriore grado d'ipocrisia: quello di chi difende l'infanzia ed in particolare l'infanzia delle bambine. Trucchi, abiti attillati e modellati sul

lo stile teen, accessori, programmi di bellezza dedicati non sembrano puntare ad una valorizzazione dell'infanzia, quanto piuttosto alla creazione di quel modello di ninfetta di cui sopra. Attraenti, sexy, aggressive. Sono aggettivi adatti all'infanzia? Che fine fanno le piccole Lolite?
Bene io penso che a noi ragazze spetti l'ennesimo duro compito: combattere una battaglia di civiltà. Rifiutiamoci di accettare che certi marchi di moda impongano standard incompatibili con la normalità. Rifiutiamoci di essere messe nella condizione di sentirci diverse, grasse, strane, solo perché abbiamo le forme di una donna e non di una bambina. Difendiamo il diritto di queste bambine ad essere tali e smettiamola di accondiscendere a modelli che potrebbero, ad uno sguardo ipercritico, essere tacciati di istigazione alla pedofilia.
Anche l'acquisto di un capo d'abbigliamento può essere responsabile: chi pubblicizza la propria merce attraverso modelli sbagliati non dovrebbe ricevere nemmeno un centesimo dalle nostre tasche. Riappropriamoci delle nostre taglie, quelle vere, e smettiamola di giocare al martirio inseguendo attraverso privazioni e sacrifici il fisico di una dodicenne. E' la responsabilità dell'essere adulte: ci sono anche tanti benefici, che vanno ben al di là di una taglia 38.
 
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