mercoledì 20 aprile 2011

Come non cambiare l'immaginario: qualche osservazione sul reality show I Used to Be Fat

Non c'è bisogno che mi lanci in una complicata introduzione nella quale dispiegare il mistero dell'imbarbarimento del palinsesto di Mtv. Già sapete di cosa sto parlando. Anche voi vi chiedete dove siano andati a finire i video, persino quelli più cretini. Anche voi avete l'impressione che ci sia qualcosa di immondo nel continuo fluire di reality show doppiati per lo più a caso e nella apparente pretesa della rete di essere portatrice di impegno sociale attraverso alcuni dei programmi che ascoltiamo distrattamente mentre siamo in realtà intenti a fare altro.

Ammetto di essere molto delusa da questa deriva, poiché un tempo trovavo conforto guardando alcuni dei programmi che Mtv proponeva. Non sto parlando solo di Daria, che è quanto di più sacro Mtv ci abbia mai donato, ma anche delle prime stagioni di Made, di Avere Vent'anni, di Jackass e del Brand:New pre moltiplicazione dei canali e successiva soppressione di quello che portava questo nome. Ricordo poi di aver intravisto un paio di puntate di uno show condotto da Andrew WK che, se la memoria non m'inganna, si ergeva trionfante sul labile confine tra completa idiozia e pura genialità.

Oggi è raro che un programma di Mtv metta in moto il mio cervello, mi spinga a provare cose nuove e mi conforti circa il mio permanere nello stato di Caso Umano. Al contrario, è facile che un programma di Mtv intacchi gli angoli oscuri della mia testa e mi suggerisca pensieri cattivi, come “Ti vesti da culo”, “A 23 anni non sei ancora capace di truccarti” e “Se vuoi quel contratto editoriale devi vestirti da donna adulta, cioè devi indossare un abito striminzito, metterti delle scarpe tacco 12 e farti la messa in piega che tutte le ragazzette che vanno al prom si fanno”. (Ci tengo a precisare che l'ultimo consiglio è contenuto in una puntata del programma Plain Jane; non l'ho inventato).
Molto spesso questi programmi sono universalmente deprecabili, nel senso che è molto difficile trovarvi degli aspetti positivi o per lo meno problematici da criticare. Esistono però anche altri tipi di programmi; quelli che si reggono come equilibristi  sull'oceano delle potenziali critiche, uscendone però vincenti.

A colpirmi recentemente è stato proprio un programma che dal mio punto di vista rientra con agilità nella seconda categoria: I Used to Be Fat .
I Used to Be Fat è uno esempio di reality show semi-impegnato in cui una studentessa o uno studente universalmente riconosciuti come grassi decidono di dedicare qualche mese della loro vita (tre o quattro, da quanto ho visto finora) al dimagrimento intensivo. Nel compiere questa impresa i protagonisti di ciascuna puntata vengono aiutati e seguiti da un personal trainer, che tendenzialmente funge anche da pseudo-terapeuta o da buddy.
Il bello di I Used to Be Fat è che, come anticipavo sopra, ha tendenzialmente ottenuto buone recensioni ed è andato definendosi come un programma che aiuta le persone ad aiutarsi da sole. Detta così, sembrerebbe non esserci nulla di male. Anzi, saremmo forse delle stronzette se pensassimo il contrario.
La faccenda diventa però problematica quando decidiamo di entrare nel dettaglio, di analizzare non solo gli obiettivi generali del programma e la gioia che vediamo sui volti delle persone che sono riuscite a perdere quaranta chili di tre mesi, ma anche tutto ciò che c'è nel mezzo.
Prendiamo ad esempio la seconda puntata, nella quale Marci, una studentessa in procinto di cominciare l'università, dichiara di farsi schifo e di avere come principale obiettivo nella vita quello di entrare negli eleganti vestiti esposti in un negozio dove non hanno la sua taglia.
Sforziamoci di guardare oltre l'idea socialmente condivisa e sedimentata che le persone grasse siano orribili e che il loro compito sia quello di sforzarsi per rientrare nei canoni di ciò che è bello, ovvero della magrezza.
Ascoltiamo cosa viene effettivamente detto.
Marci
Si parla ossessivamente di dimagrimento, poiché questo è ciò che Marci ha richiesto accettando di prendere parte al programma. Se ne parla come di una necessità dettata esclusivamente da finalità estetiche. I pochi accenni all'impatto positivo che la perdita di tutti quei chili avrà sulla salute di Marci sono del tutto marginali, perché – ricordiamolo – l'obiettivo della ragazza è quello di entrare nei vestiti di quel negozio della sua città. A sconvolgermi è soprattutto il fatto che gli autori del programma non si facciano problemi a mostrare scene in cui Marci, una volta accettato di intraprendere una dura dieta, si affami da sola, mangiando solo un piccolo pezzetto di pollo scondito, rifiutando le verdure. Da che mondo è mondo questa non è una dieta sana e bilanciata. Il fatto di mostrare queste pratiche alimentari a centinaia di migliaia di ragazze che magari prenderanno spunto da I Used to Be Fat per intraprendere un precorso simile a quello presentato non mi pare particolarmente lodevole. Allo stesso modo trovo crudele il fatto che ogni puntata preveda un piccolo spezzone in cui la/il protagonista è costretta/o a mangiare un parco, triste e scondito pasto accanto ad una persona che si strafoga di crema di formaggio e altri assurdi cibi americani pieni ingredienti pessimi per la salute ma incredibilmente saporiti. Basta ascoltare i commenti che fanno le dirette interessate per rendersi conto che l'idea sottesa a quel frammento di show è la tortura.

"Venere al bagno" di Pieter Rubens, 1612-1615 circa
Non me la sto prendendo con Marci, badate bene, ma con gli autori di un programma nel quale, sotto un messaggio apparentemente positivo – quello del miglioramento della propria autostima attraverso l'impegno e la perseveranza – si nasconde l'ennesima conferma di un modello estetico univoco, di una femminilità vincolata a sfilze di obblighi e divieti, nel quale le protagoniste devono relazionarsi con dei coach che confermano e rinsaldano la loro convinzione che il grasso sia l'origine di tutti i mali e che le persone grasse siano esecrabili, pigre, un peso per la società. Il format potrà anche apparire lodevole agli occhi di chi condivide l'idea che dentro ogni orribile persona grassa ci sia una bellissima persona magra pronta a sbocciare; una persona magra che finalmente guarderemo senza provare disagio.
Eppure credo che trattare un tema così complesso e delicato con tale leggerezza – la stessa leggerezza dei programmi che rispondono a gravi disagi personali con un nuovo taglio di capelli o con un intervento di chirurgia estetica – faccia un grande torto agli spettatori del programma di cui stiamo parlando.
Ho già accennato alla presentazione di un modello univoco di femminilità. Esso è parente stretto di un'idea statica di bellezza, totalmente slegata dalla storia del concetto stesso, le cui tracce sono riscontrabili in moltissime opere d'arte che ritraggono donne con la cellulite e i fianchi larghi, archetipi di un'idea di bellezza che cozza sonoramente con quella che domina la nostra società odierna.
A tal proposito, ritengo interessante il caso di Gabriella, la protagonista della prima puntata di I Used to Be Fat. Nella presentazione che ce la fa conoscere all'inizio del programma scopriamo che Gabriella è molto brava a scuola e popolare tra i suoi compagni. E' persino stata eletta reginetta della scuola durante il suo senior year. Ciononostante si sente brutta e tende a mangiare in modo compulsivo. Dichiara inoltre, come farà Marci nella seconda puntata, di aver cominciato a sentirsi brutta e inadeguata durante le scuole elementari, quando veniva chiamata “grassa” da alcuni dei suoi compagni. Guardando delle foto dell'epoca però non posso fare a meno di notare come né Gabriella né Marci fossero particolarmente sovrappeso.
Da come viene presentata la loro storia, sembra che lo stigma imposto sui loro corpi dai compagni di classe – quello di persona grassa – sia progressivamente divenuto realtà. Il problema non è dunque circoscrivibile al corpo di queste ragazze, che per anni sono state prese in giro al punto da non uscire quasi più di casa (come nel caso di Marci) o dal sentirsi costrette a fingere di stare bene, pur covando della sofferenza inespressa (come nel caso di Gabriella). Il fatto di intervenire su di loro aiutandole a perdere quaranta chili in tre mesi risolverà forse una parte dei loro problemi, come quello di entrare nei vestiti desiderati, ma non interverrà sull'idea rigida e monodimensionale di bellezza con la quale tutti noi dobbiamo confrontarci. Non aiuterà a mutare l'immaginario condiviso, a leggittimare qualsiasi tipo di immagine corporea e a prevenire il disagio provato dai bambini e dalle bambine costretti a misurarsi con modelli costruiti con Photoshop. In poche parole, non eviterà alle piccole Marci e Gabriella di oggi di essere umiliate dai compagni e non fornirà loro gli strumenti critici per affrontare le prese in giro e tutto ciò che ci sta dietro.

A tal proposito, concludo segnalando un bel post di Tasha Fierce dal titolo Body Love and Fatness as Choice, che introduce il pressoché inesplorato tema della scelta di una forma corporea sanzionata socialmente, che fa parte dell'altrettanto consigliata serie di post di Bitch Media che porta il titolo di Sex and the Fat Girl.

1 commento:

scimmia gialla ha detto...

http://blog.leiweb.it/marinaterragni/2009/10/19/pretendi-di-piu/

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