martedì 31 maggio 2011

JULIE RUIN: a genie, rather than a genius (and she wears a scrunchie)


Julie Ruin non è altro che un progetto (inizialmente) solista di Kathleen Hanna.
Maestra di vita, figura di spicco del movimento Riot Grrrl sviluppatosi a cavallo degli anni Novanta in quella punta remota degli States che è lo stato di Washington (prego, guardare in alto a sinistra sulla cartina), Kathleen Hanna, ormai è un marchio di fabbrica: qualunque cosa tocchi, diventa oro; e non si fa per dire. Se credete sia raro di questi tempi (o di quelli del passato) trovare un’idealista credibile e ferocemente coerente con ciò che va professando, se credete che trovare un essere umano del genere sia impossibile, allora quando avrete conosciuto e ascoltato Kathleen – oltre a ricredervi – non potrete più farne a meno. Votata alla causa femminista fin da giovanissima (i suoi racconti circa la “scoperta” del femminismo a 9 anni sono leggendari), la Hanna è stata lead singer delle Bikini Kill dal 1990 al 1998 e poi fondatrice del terzetto Le Tigre, dal 1998 circa. Di mezzo a queste due esperienze, culto intoccabile per molte di noi, in mezzo dico, ci sta Julie Ruin.


L’album (la cui cover è illustrata qui sopra) è del 1998, registrato quasi interamente nell’appartamento di Kathleen Hanna a Olympia. Molto di quello che si può ascoltare in quest’album verrà poi ripreso da Le Tigre (tastiera, campionamenti, batteria martellante, voce megafonata, cantilene piuttosto che urla frantuma timpani), per non parlare della ruvida punk attitude, testamento prezioso del periodo Bikini Kill, qui ancora ben presente.
Il disco di Julie Ruin (self-titled, dimenticavo) contiene dei pezzi con testi d’alto pregio: forse il più emblematico di questi è I wanna know what love is (che sì, dice I wanna know what love is, I want you to show me, citando i Foreigner, ma contiene un messaggio ben diverso da quello diffuso dalla band newyorkese): la canzone di JR tratta di violenza e sessismo ai danni delle donne e abuso di potere da parte della polizia; la voce narrante vuole sapere cos’è l’amore perché molto probabilmente non ha conosciuto altro che cattiveria e prevaricazioni nella sua vita e non è in grado di capire cosa quella parola significhi veramente. Il finale è impreziosito dal campionamento di un pezzo dei Clash, “Guns of Brixton”, in cui sentiamo Simonon ripetere all’infinito They kick out your frontdoor, che di quella canzone è il verso iniziale. Pure la canzone dei Clash, (n.b: scritta prima dei violenti scontri che incendiarono Brixton nell’81), tratta di violenze e scontri con la polizia; l’utilizzo dell’estratto pare quindi ben sfruttato. Il testo di “I wanna know what love is” è molto forte, niente è mandato a dire: Kathleen sputa fuori quello che molte donne pensano e non dicono, e lo fa in modo talmente incisivo da spingere ogni ascoltatrice (e ascoltatore) a indignarsi per la facilità con cui spesso questo tipo di aggressioni viene commesso e subìto in silenzio. Verso la fine, il verso “I don’t care how we get it, but we’ll get it someday” viene ripetuto fino a perdere il fiato, assumendo le fattezze di un mantra, di una preghiera di liberazione. L’autenticità dell’impegno di Kathleen Hanna alla causa femminista rende unico questo pezzo, e gli conferisce una credibilità difficilmente riscontrabile altrove.
Accanto a questo, vi sono altri 14 pezzi, tutti egualmente di pregio; i temi trattati sono svariati. Se anche voi, come me, badate molto ai titoli delle canzoni quando, ai primi ascolti, non conoscete l’album che avete davanti e cercate indizi nelle titolazioni, beh, sarete sicuramente curiosi di ascoltare un pezzo che si intitola Stay monkey. Preceduto dal breve Interlude (pezzo strumentale della durata di 52 secondi), Stay Monkey cattura subito l’attenzione con una base di “applausi” o mani battute a tempo e volumi che s’alzano e riabbassano distorti; il canto di Kathleen-Julie parte pacato per esplodere quasi implorante nel ritornello (la parte che preferisco) : I want, I want, I want, I want youuu to staaaay mooonkeey with meee… Parola, non riuscirete a fare a meno di metterla in repeat (io mi ci sono consumata le orecchie). La canzone è, se confrontata con altre, più semplice ed essenziale anche nel testo (che tratta, evidentemente, di una relazione sentita unilateralmente), e forse proprio per questo più orecchiabile. La definirei quasi pop. Con tutti i risvolti positivi del caso, sia chiaro.
Se, passata questa, tornate a ragionare sui titoli, probabilmente incapperete in The punk singer. Cambia il genere (indovinate voi qual è) e cambia il tema. Tutto poggia su di una comparazione tra la prima persona (“I”) che canta e quella di chi ascolta (“you”): su di cosa ci si confronta? Sui perché e i percome una persona decide di prendere a cuore una causa e farsene portavoce. L’ io di Kathleen è evidentemente irritato e frustrato dal comportamento altrui che invece d’essere autenticamente legato ad una problematica e deciso a risolverla, tradisce nemmeno tanto nascostamente un’impressionante vuotezza d’intenti e una assai più decisa propensione al posing, al mettersi in mostra spacciandosi per ciò che non si è. D’una chiarezza assoluta in questo senso il verso I want a revolution, you wanna make your mark. JR rimprovera all’interlocutore anche l’essere avulso dal contesto socio-civile in cui tenta di operare (“I’m on the here and now, you’re on the year before”) e ribadisce con forza quello che è il suo (di lei) scopo personale: it’s not the guilt that I want or punishment I see, the world reorganized now in terms of people’s needs.
Rimproveri simili si ritrovano in A place called won’t be there, dove il bersaglio sono le femministe eccessivamente impostate, quelle donne che arrivano ad usare tattiche filo-poliziesche per imporre alle compagne combattenti le loro idee o regole su come comportarsi, di fatto ottenendo come unico risultato quello di risultare fake, ove non controproducenti: you want to plant your feet where only others have really stood.
Altra canzone degna di menzione (ma lo sono tutte, a dire il vero) è V.G.I., parte del cui testo mi sono divertita a rielaborare per il titolo di questo post. V.G.I. ruota attorno alla decostruzione dello stereotipo della Valley Girl, ovvero la ragazza (alto)medio-borghese, che utilizza spesso intercalari come “uh”,”like”, “totally” e “whatever”, ed è sovente considerata un’oca, nonché una sfacciata materialista. Nel testo, scritto in prima persona, Kathleen-Julie si definisce “a masterpiece”, in grado di mettere insieme idee come fossero deliziosi baci (la promiscuità è un’altra delle caratteristiche tipo della Valley Girl), far uscire matti i ragazzi, rifiutandosi però nel contempo di badare alle loro faccende domestiche. Il tutto indossando uno “scrunchie”, un elastico per capelli molto comune negli anni Novanta, simbolo di frivolezza e naïveté (se vogliamo).

Nel disco, inoltre, non mancano i riferimenti agli uomini d’affari americani (in Aerobicide, unica canzone di cui è stato realizzato il video; dirige Sadie Benning, che farà parte della prima formazione de Le Tigre); all’uncinetto (in Crochet), hobby/mansione imposta femminile per eccellenza; al rapporto genitoriale (in Radical or Pro-parental); la perdita (?) di un’amica (Tania) e molto altro (sì, anche l’amore, tranquille).

Sono passati 13 anni da quando questo disco (che, badate, suona meglio se ascoltato ad alto volume) è uscito, ciononostante Julie Ruin (e il progetto che vi sta dietro) non è finita nel dimenticatoio. Lo scorso dicembre, infatti, Kathleen Hanna e Kathi Wilcox (ex Bikini Kill), hanno suonato alla Knitting Factor di New York, presentandosi come THE JULIE RUIN: la serata (una sorta di tribute show per la Hanna, dove ad esibirsi c’erano anche JD de Le Tigre coi suoi MEN, Kaia Wilson, Bridget Everett assieme al marito di Kathleen, Adam Horovitz dei Beastie Boys, Kim Gordon dei Sonic Youth, ed altri) è stata registrata da un’apposita troupe, per essere poi inserita nel documentario “Who told you Christmas wasn’t cool”, diretto da Sini Anderson. Quando, in chiusura, Hanna e Wilcox si sono esibite, oltre ad alcuni pezzi dell’album di cui qui s’è appena parlato, hanno suonato anche degli inediti: sembra che stiano lavorando ad un nuovo album! Non so voi, ma io godo assai. Vi lascio un video di quell’esibizione (la canzone è “Radical or Pro-parental”): Kathleen Hanna avrà anche superato i Quaranta, ma è ancora in gran forma, oltre che splendida. Di solito si dice dell'Inter, ma io qui lo propongo per lei: AMALA!


Curiosità: la grafica della t-shirt ufficiale di Julie Ruin, che mostra il simbolo di venere ricreato dall’unione di un microfono e dal nome dell’artista, è stata realizzata da un fan (Joshua Elowsky), vincitore di un contest indetto dalla Hanna nel 2010. Chissà che soddisfazione…

Curiosità #2: in una puntata della quarta stagione di "L Word", le protagoniste giocano insieme ad alcuni amici ad indovinare i nomi di alcuni personaggi famosi, tramite indizi mirati. Ad un certo punto, il personaggio da indovinare è Kathleen Hanna, e gli indizi sono "Le Tigre, Julie Ruin, Bikini Kill": tutte le ragazze omosessuali indovinano immediatamente di chi si tratta, mentre gli altri non c'arrivano. Quando viene loro spiegato sarcasticamente che "she just pretty much started the whole riot grrrl music scene, but hey...", uno degli uomini chiede incuriosito "What's the riot grrrl music scene?". Ah, ah.

1 commento:

sofia guiotto ha detto...

Vi ringrazio compagne di avventura perchè mi state educando :)

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