La cofondatrice ed editor della rivista Bitch: Feminist response to pop culture (che noi segnaliamo tra i link amici) si chiama Andi Zeisler. Qualche anno fa scrisse un articolo poi pubblicato dal Washington Post in cui discuteva dell’ impressionante diffusione della parola “Bitch” (o “B-word”, parola con la B), all’interno del panorama culturale e politico americano. Zeisler si concentrava sul fatto che questa parola (in italiano traducibile con “stronza” o “puttana” e vari vezzeggiativi) viene troppo spesso usata come insulto nei confronti della donna (della donna che rifiuta le attenzioni – chiamiamole così – che l’uomo le rivolge lungo la strada; della donna che ha successo nel lavoro; della donna che alza la testa per dire ciò che pensa) e mentre alcuni sostengono che il suo utilizzo ormai entrato nelle abitudini comuni non dia più fastidio e quasi passi inosservato, lei espone il suo disappunto. Il pretesto per la realizzazione dell’articolo è stato l’ennesimo utilizzo del termine Bitch in ambito politico: questa volta ci si rivolgeva ad Hillary Clinton, oggi segretario di stato USA, allora (nel 2007, anno in cui scrive l’articolo la Zeisler) ancora in corsa verso la Casa Bianca a contendersi con Obama la possibilità di essere candidato democratico alla presidenza. Zeisler collega a questo accaduto anche altre situazioni in cui il termine con la B è stato utilizzato con un’accezione negativa ed offensiva. Nell’articolo spiega in quali circostanze questo venne scelto come titolo della rivista che fondò con Lisa Jervis e perché vorrebbe veder cambiata quella spiacevole consuetudine per cui si scredita la donna che esprime le proprie opinioni con forza, semplicemente puntando il dito alla sua appartenenza di genere.
L’articolo in questione mi è passato per le mani solo qualche giorno fa (io stessa mi trovo mestamente ad ammettere di non conoscere la rivista che da pochissimo – grazie soprattutto alla segnalazione di Margherita della nostra redazione). Mi hanno subito colpita la limpidezza e la forza delle argomentazioni della Zeisler nel dire BASTA al sessismo gratuito. Ritengo sia una persona di gran pregio ed ho voluto tradurre il suo articolo se non altro perché il modello di donna che vi viene difeso – donna che sa quello che vuole, che non ha paura di esprimere la sua opinione, anche costo di risultare impopolare – è il modello di donna da cui, bene o male, vorrei trarre ispirazione io stessa e a cui cercano di ispirarsi credo anche molte altre ragazze (ragazze che, come me, non si sentono per niente rappresentate dal modello femminile italiano ormai imperante - - quello per cui non si fa niente per niente e per cui bella presenza e capacità di scendere a compromessi sono requisiti primari).
Postilla: ho fatto delle annotazioni lungo l’articolo (per lo più brevi aggiunte di dettagli utili alla comprensione): le vedete contrassegnate da un asterisco. Per quanto riguarda la parola Bitch, che nell’articolo compare (ovviamente) più volte, ho preferito mantenere l’originale inglese (quindi anche il titolo vi fa riferimento).
"La parola con la B? Puoi scommetterci." di Andi Zeisler (Washington Post, Domenica 18 novembre 2007)
Quando lavori per una rivista che si chiama Bitch, il telefono tende a squillare spesso nel momento in cui tale parola salta fuori nei notiziari.
Quando qualche mese fa il Consiglio Municipale della città di New York annunciò una simbolica interdizione della parola, il telefono suonò.
Quando l’allenatore dei New York Knicks, Isiah Thomas, difese l’uso di tale termine nei confronti di Anucha Browne Sanders, ex direttore marketing dei Knicks che vinse una causa per molestie sessuali il mese scorso, suonò ancora di più.
E quando, la settimana scorsa, uno dei sostenitori del senatore John McCain usò questa parola con la B per riferirsi al senatore Hillary Rodham Clinton in una domanda, si è messo a suonare come un pazzo.
La gente vuole sapere se sia ancora una parolaccia. Vogliono sapere se supporto il suo uso nei discorsi pubblici. Oppure, considerandola già una parolaccia, vuol discutere per capire se il suo uso abbia delle implicazioni per la libertà di parola o se ne abbia per le molestie sessuali e per le campagne elettorali.
Un’altra cosa, del lavorare per una rivista che si chiama Bitch, è che non si può fare a meno di averne le scatole piene di certe discussioni. Per me è così. Tuttavia continuerò a dire le stesse cose che dico sempre, in parte perché parlarne è una responsabilità e un rischio professionale e in parte perché, al di là della fatica, sono cose in cui credo.
Dunque, eccoci: Bitch è una parola che usiamo culturalmente per descrivere qualsiasi donna sia forte, arrabbiata, inflessibile e che, spesso, non è interessata a compiacere gli uomini. Usiamo il termine per riferirci alla donna per strada che non risponde ai fischi o ai sorrisetti degli uomini quando dicono “Coraggio piccola, non può andare così male!”. Lo usiamo per la donna che ha un lavoro migliore dell’uomo e non se ne scusa. Lo usiamo per la donna che non indietreggia quando è ora di confrontarsi. Ma diciamo le cose come stanno: è una parolaccia? Certo che lo è. In quanto membri di una cultura, abbiamo fatto tutto il possibile per assicurarci che lo fosse, continuando a portare avanti quell’atteggiamento mentale che considera le donne potenti come brutte, irascibili e, ovviamente, poco femminili – e che vede i discorsi decisi delle donne come un anatema per un mondo ordinato ed efficiente. È solo per queste ragioni che quando io e Lisa Jervis abbiamo dato il via alla rivista nel 1996, nessun altro titolo venne preso in considerazione. In quanto giovani donne abituate ad andarsene per strada indossando canotte sportive e a essere bombardate, proprio per questo, da quella parola, sapevamo a che tipo di insulti saremmo andate incontro scegliendo di pubblicare articoli sul sessismo nella cultura popolare e di consumo.
Quando io e Lisa eravamo in tour per promuovere l’antologia per il decimo anniversario, gli uomini ci si avvicinavamo dopo i reading per chiederci, nervosamente, se odiassimo gli uomini – o per sapere se gli uomini fossero “autorizzati” a leggere la rivista. Rispondavamo loro sempre allo stesso modo: se leggeste realmente la rivista – che include di tutto, dai saggi sul razzismo nell’industria della moda alle rubriche sulla compra vendita del farmaco Gardasil (anti HPV) – vedreste che non riguarda l’odio per gli uomini, quanto più l’esaltazione delle donne. Fin troppe persone però non vedono questa differenza. E ciò spiega, almeno in parte, il perché la parola con la B sia ancora un termine problematico. Noi speriamo di poterlo un giorno riscattare come descrizione di donne intelligenti e loquaci, un po’ come il termine “queer” venne riproposto dai radicali gay. (*Tale termine, storicamente utilizzato in senso dispregiativo verso gli omosessuali, viene riabilitato negli anni Novanta, grazie agli attivisti di Queer Nation). Come ha scritto Lisa nella dichiarazioni d’intenti della rivista, “Se essere una donna che non ha peli sulla lingua significa essere bitch, lo prendiamo come un complimento, grazie”. Anche se dubito legga la nostra rivista, immagino proprio che Hillary Clinton abbia una posizione simile alla nostra riguardo questa parola. Dopotutto, le persone a cui la Clinton non piace la stanno infamando almeno dal 1991. Ad un incontro per la campagna elettorale in Carolina del sud, lunedì scorso, i presenti risero infatti deliberatamente, quando una donna chiese a McCain, “Come la battiamo, la stronza?”. L’aspetto più sorprendente riguardo quest'episodio (per chiunque voglia vederlo, disponibile su Youtube), è che ciò non sia successo prima. Certo è stato irrispettoso da parte di McCain cavarsela con una risata, a quell’insulto (invece di ammonire l’intervistatrice, lui la definì un’ “ottima domanda”, e aggiunse “rispetto la senatrice Clinton”). Ovvio, d’altra parte, che la donna che pose la domanda in questi termini stava palesemente cercando di mettersi in mostra utilizzando una frase ad effetto (congratulazioni donna anonima! Tu sì che ci sai fare!). Per la Clinton, tuttavia, questa dev’essere stata poco più che routine; altro giorno, altro insulto. In questi giorni, la gente che scaglia addosso alla Clinton quel termine, sono i suoi oppositori più diretti: repubblicani, conservatori sociali, varie Schlafly e Coulter (*esponenti della destra americana), e quell’amorfo e viscido gruppo di misogini diffusi. Il loro disprezzo per la Clinton non ha nulla a che fare con la possibilità che la definizione del dizionario Merriam-Webster le si addica (ovvero che sia una “donna maliziosa, maligna e dispotica” - “termine usato talvolta in modo generico come insulto”). Certo non ha nulla a che fare con la posizione da lei assunta riguardo determinate problematiche. Quando queste persone chiamano la Clinton (o la presidente della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, o il senatore Dianne Feinstein o l’ex candidata vice presidente Geraldine Ferraro) bitch, o persino quando usano il più soft “che-fa-rima-con-witch”, quella è un’espressione di sessismo puro – sperano di chiudere la bocca non solo ad una donna, ma a tutte le donne che osano essere sicure di sé. Mettiamola così: se non vi piacciono le posizioni della Clinton su, mettiamo, sanità ed Iraq, ci sono vagonate di altri modi per dirlo, evitando di invocare la sua appartenenza di genere. Molte persone sono indifferenti alla Clinton; diverse le ragioni: il suo supporto per i gruppi anti-gay che difendono la legge sul matrimonio, i suoi maldestri tentativi di proporre una chiara posizione sull’Iraq, la paura che sia vincolata agli interessi corporativi tanto quando il suo predecessore. Ci sono poi delle donne che si stizziscono all’idea che ci si aspetti da loro che votino per il proprio sesso, invece di seguire le loro specifiche convinzioni politiche (*l’idea è quindi che le donne votino la Clinton semplicemente perché anche lei donna come loro). Tra tutte queste persone sono però in pochissime quelle preoccupate che la Clinton non sia appassionata a sufficienza, oppure sia sciatta o poco femminile o qualunque altra caratteristica sia annoverata nel profilo della perdente che le parano davanti ogni giorno.
Così la parola rimane più incendiaria che mai. (Mi dispiace senatore McCain). Nel 1996, quando la parola l’aveva appena avuta vinta sugli addetti alla censura del network televisivo, non avrei mai pensato che potesse appesantirsi ulteriormente. (È stato lo stesso per la parola “femminismo”, ma questa è un’altra storia). Sono stata però smentita dall’ascesa della prima seria candidata favorita per la presidenza. Per strada, in campo musicale e nelle sale del consiglio, quella è una parola che non ha intenzione di sparire. La goffa affermazione che Isiah Thomas fece al processo per molestie sessuali, circa l’uso informale e spontaneo della parola, (secondo lui) percepito come meno problematico all’interno della comunità nera, non convinse il giudice e così come non convinse molte altre genti. Qualche anno fa, il New York Times scrisse del fenomeno che vedeva gli uomini usare tale termine per descriversi a vicenda: un uso, questo, che affonda le sue radici nelle dinamiche sociali della popolazione penitenziaria, ma che da lì si è poi diffuso nei campi dello sport, della musica rap e delle scuole medie di qualunque luogo. L’articolo ragionava sul fatto che il termine sta diventando quasi una cosa da niente, una bazzecola, se non addirittura un termine rispettabile. Non sono d’accordo: è semplicemente l’ennesimo modo di denigrare le donne.
Sono senz’altro disponibile a discutere vivacemente su come la parola sia usata nella vita di tutti i giorni: dagli uomini, dalle donne, per scherzo o per convinzione. Ma prevedo che questo dialogo non avrà luogo in un’arena politica che considera ancora la mera femminilità come una mancanza. Parlare dell’uso del termine – contro la Clinton, contro Browne Sanders o contro donne comuni di qualunque provenienza – non serve a nulla se non consideriamo anche le numerose parole non dette che la seguono. Lasciando da parte la mia personale definizione del termine, posso in tutta confidenza dire che voglio che il mio prossimo presidente sia bitch (che sia uomo o che sia donna). Senza peli sulla lingua? Ok! Autoritario? Certamente! Affatto preoccupato di compiacere tutti? Sicuro! Che non cede alla pressione del dover risultare “gradevole”? Potete scommetterci!
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