mercoledì 27 aprile 2011

Gioventù


Avete mai provato l'angosciante sensazione di vivere una vita priva di scopo? Di essere solo velleitari sognatori senza concrete capacità di competere nel mondo reale? Avete mai pensato che la vita che state conducendo vi stia portando dove non volevate, inglobati all'interno di un sistema che pare rivelarsi esattamente identico a se stesso sia che si viva in una cittadina di provincia, sia che ci si trovi in una brulicante metropoli? Se ad almeno una di queste domande avete risposto in maniera affermativa questo libro fa per voi: leggetelo e vi sentirete meno soli, ma attenzione, non troverete alcuna soluzione ai problemi esistenziali sollevati, nessuna consolazione e nessuna speranza, solo la rincuorante coscienza del "male comune".
Scene di vita di provincia è il sottotitolo dell'opera, ovviamente solo in traduzione italiana, ma in questo caso azzeccato. Il percorso biografico che ripercorriamo fianco a fianco del protagonista ci conduce in effetti dal periferico sud Africa degli anni Sessanta alla labirintica Londra, con i suoi monolocali, i suoi uffici e le ultime corse della metro, ma nello sviluppo della vicenda nulla cambia col cambiare degli spazi geografici: assistiamo sempre allo stanco ripetersi di cliché lavorativi ed esistenziali, alle stesse angosce e alle stesse preoccupazione. Il sud Africa sullo sfondo appare come il "male" da cui fuggire, il paese del ristagno, dell'ingiustizia sociale e della mancanza di stimolo intellettuale.
Durante la narrazione c'illudiamo che per il protagonista sia possibile una "redenzione", la costruzione di un sè diverso in un luogo diverso, il conseguimento della vera emancipazione, quella dagli schemi dati per acquisiti (trovare un lavoro rispettabile e regolare, una casa di cui pagare il mutuo, una moglie che condivida la quotidianità), ma di volta in volta questi stessi schemi sembrano riemergere prepotentemente come unica possibilità per una vita "sana".
Non c'è nulla di idealista in questa vicenda, nulla che ricordi la vita degli artisti e scrittori a cui l'io narrante fa continuo riferimento (con pregevolissime citazioni e suggerimenti di lettura colti che mi hanno portata ad apprezzare immensamente il ricco bagaglio culturale che Coetzee è in grado di trasmettere): siamo di fronte al nulla del quotidiano, un nulla a cui il protagonista sembra non voler rassegnarsi. Alla ricerca di un significato vero da dare al vivere, l'io si perde e si ritrova a vivere nella stessa condizione provinciale da cui era fuggito, con l'illusione, pur breve, di aver costruito qualcosa di differente. Siamo tutti destinati all'inutile ripetizione di schemi predeterminati? E' possibile costruire qualcosa di differente, dare senso "vero" al nostro esistere o viviamo solo per far passare il tempo, arrivando a desiderare proprio quelle stesse cose da cui siamo fuggiti? Non vi svelo il finale, sarebbe un'ulteriore cattiveria in un mondo che non ci propone grandi dati positivi. Consolatorio e molto, molto attuale.

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