giovedì 7 aprile 2011

Altarini Berici: La Lotta Armata al Bar

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L'estate scorsa vivevo ancora a Vicenza. Tutte le mie cose erano accumulate in garage, in soffitta e sul pavimento della mia camera, che all'epoca era pressoché inagibile. I mobili c'erano e non c'erano. Scatoloni pieni di vestiti sonnecchiavano a Schio, dai miei nonni. Tutti i miei segreti, custoditi in una scatola collocata sotto il letto, si erano sparpagliati a terra a causa di un continuo susseguirsi di folate di polvere.
I pavimenti della mia casa, così come li avevo vissuti per più di vent'anni, stavano per sparire ed essere sostituiti. Non c'erano sedie, poltrone, divani, bancali o altri oggetti che fungessero da spazio per la lettura.
Ricordo che un pomeriggio fui colta dalla rabbia; non trovavo più un libro che mi serviva e dolevo al pensiero di dover trascorrere gli ultimi giorni a casa, prima del mio trasferimento a Trento, in un paio di stanze dai pavimenti sfasciati, senza internet, senza corrente elettrica.
Tra martelli pneumatici, zanzare e operai molesti non potei far altro che sedermi in cima ad una scala e leggere l'ultimo numero de La Lotta Armata al Bar, che qualche ora prima mi era stato consegnato da Gabriele, uno dei fondatori della fanzine in questione.

Allo sguardo superficiale La Lotta Armata al Bar potrebbe sembrare un ridicolo tentativo di riproporre un'estetica e un medium che i nostri zii avevano dichiarato morto quando noi eravamo alle elementari. Forse anche prima.
Altre voci (per lo più di amici di amici di conoscenti vari) suggerirebbero invece l'interpretazione della Talpa Saputella, che parafrasata sarebbe questa:
“Questi tizi della Lotta Armata al Bar sono dei fattoni comunisti che parlano solo di sfasciarsi davanti al Cancelletto”.
Poco importa che lo sfasciarsi davanti al Cancelletto sia parte fondamentale della formazione di ogni giovane berico e che l'attività in questione non sia mai stata decantata – se la memoria non m'inganna - sulle pagine della fanzine di cui stiamo parlando.
Ma le Talpe Saputelle sono così. C'è poco da fare.
Abitano sotto terra e fruiscono servizi concepiti e messi in atto da Altri Generalizzati.
Io – la megalomane ed egocentrica Io – frequento invece il versante dei Pro Lotta Armata al Bar, per motivi socioculturali che includono un'adolescenza moderatamente merdosa, l'aver toccato con mano le perversioni delle istituzioni cattoliche beriche e la desolante assenza di cose-da-fare che mi portò ad essere l'unica deprecata ascoltatrice degli Smiths in una compagnia di metallari che mediamente avevano sedici mesi meno di me.

Di fronte a questioni simboliche che si fanno reali come muri di granito, come ad esempio il crepaccio che si apre tra scuole superiori e università (o chi per essa), dal mio punto di vista La Lotta Armata al Bar è quanto di più simile ad un prodotto culturale Degno (e dico Degno richiamando concetti alti e del tutto remoti rispetto alla nostra quotidiana esperienza) uno studente delle superiori possa reperire a Vicenza. Sì, poi in realtà ipotizzo che i lettori della fanza siano vari e che quindi non si concentrino solo nelle scuole. Ma il punto è che l'apparente rinascita culturale che si sta consumando sui tetti, nelle aiuole e nelle cantine della nostra terra ha investito solo in parte la popolazione minorenne berica, per motivi che varrà la pena di affrontare in separata sede.
Come si diceva sopra, La Lotta Armata al Bar parla la lingua che meglio si concilia con gli angoli dei corridoi nei quali eravamo soliti rifugiarci a ricreazione, pur introducendo temi e dibattiti che esulano dal più banale archetipo del Giornalino Scolastico Libertario o dalla Fanzine Politicizzata Tout-Court.
I contenuti sono assai vari e compositi, sempre in bilico tra il resoconto accurato di fatti d'attualità, l'autobiografismo e la narrazione pura.
Infine, vorrei dedicare questa riga alla celebrazione dei bei fumetti che accompagnano ogni numero e che in parte trovate anche sul sito della fanza.


Quella che segue è un'intervista ai tre fondatori de La Lotta Armata al Bar: Alessio, Bruno e Gabriele. Sempre siano lodati.


- Innanzitutto, chi si nasconde dietro al nome La lotta armata al bar?

Gabriele: Avrei bisogno di capire l’intenzione che sta dietro a questo “chi”. Se si intenda cioè chi nel senso degli autori, oppure un chi che voglia esplorare quello spettro nascosto tra le curve del nome “la lotta armata al bar”. Nel primo caso si tratta semplicemente di tre tizi stufi di lamentarsi per la mancanza di spazio di espressione che hanno provato a realizzare qualcosa, anche solo per vedere finalmente almeno un progetto andare in porto. Rispondendo a questa domanda mi rendo conto che anche la seconda domanda ha già trovato una parziale risposta: lo “spettro” altro non è che quello dell’apatia, si aggira inquieto per le pagine in bianco e nero ricordandoci continuamente che un modo di far qualcosa di bello c’è, e che siamo in grado di non soccombergli.

Bruno: siamo uno due tre molti individui, direi di giovine età, che hanno in comune poco, ma molta voglia di alzare il culone dal divano, spegnere la tv, e sognare come tutti dovrebbero.


- Qual è stata la genesi del vostro progetto?

Alessio: Un sabato sera Gabriele e un suo amico mi davano un passaggio e Gabriele per l'occasione mi mostrò delle fanzine che aveva appena comprato all'ex deposito95. Beh, le ho viste e subito mi son detto: devo farla anch'io.
Nel progetto ho da subito coinvolto Gabriele, che forse era ancora più lanciato di me, e Bruno che era il mio co-blogger, nonché, grandissimo amico ovviamente.

Gabriele: Una fortunata serie di coincidenze che ha fatto si che venissi in possesso di qualche copia di P.L.A.F. zine, mostrata poi ad Alessio. C’era già un buon terreno preparato chissà da quanto tempo in tutti noi, è bastato buttarci sopra qualche seme per far nascere questo piccolo progetto.

Bruno: un giorno alessio viene e mi chiede se butto giù qualche idea/qualunque cosa per fare una fanza, con lui e gabriele, di cui conoscevo solo i tratti somatici. ho risposto subito, forse, si, niente di mai provato perdiana!!


- Come mai avete deciso di investire Vicenza con un mezzo old-school come la cara vecchia fanza cartacea?

Alessio: più che investire su Vicenza, inizialmente abbiamo investito su di noi. La fanza cartacea è per l'appunto qualcosa di tattile oltre che visuale, la devi fare con le mani: forbici, colla e via. Può sembrare solo una sfumatura rispetto ad una webzine, ma in realtà, per me, rappresenta una caratteristica fondamentale: il blog che avevamo io e bruno non se lo cagava nessuno, con la fanza, nella quale ne abbiam messe di cose del vecchio blog, invece abbiam raggiunto un "pubblico" più vasto, ma soprattutto l'abbiamo raggiunto meglio perché si percepisce la differenza fra i due anche se gli scritti sono gli stessi: in una fanza il lettore vede un maggior coraggio, un maggiore sforzo lavorativo e dunque una maggior forza di volontà finendo per apportare una maggiore forza espressiva.

Gabriele: Non so se “investire” sia la parola giusta. Mi sembra un po’ troppo imponente e grandiosa. Direi che ci siamo infilati di sbiego un po’ alla volta nella quotidianità dei nostri conoscenti, cercando di coinvolgere il più possibile e di suscitare qualche tipo di reazione. Tenere in mano un libro o un giornale è ben diverso dal leggere su uno schermo, coinvolge il tatto, può coinvolgere l’olfatto. Inoltre una pagina richiede tempo per essere preparata e si fa un bel lavoro di forbici e colla che è bello recuperare dalle elementari!
Poi la grafica old-school ci piace dai, vuoi mettere il romanticismo di un collage fatto a mano? (si intenda il tutto con la dovuta ironia).

Bruno: innanzi tutto perchè siamo gente pratica, in secondo luogo come ho detto sopra, era una cosa nuova e mai vista, almeno da me, in ultima, se ti lanci su internet ti si filano tutti e nessuno, leggono e poi si dimenticano, perdono.. trovarsi carta stampata di fronte, da poter prendere con mano quando se ne ha necessità, è qualcosa di unico.. diciamo no all'immediatezza per piacere!


- Leggendo i primi cinque numeri de La lotta armata al bar e seguendo le vostre attività emerge chiaramente il vostro intento di dare spazio e voce alle band vicentine e italiane della scena-non scena indipendente. Da cosa nasce questa spinta verso le cantine e i garage?

Alessio: mi piace molto la musica e mi viene naturale parlarne nella nostra zine. La cantina e il garage sono per chi fa musica quello che la copisteria meno cara rappresenta per noi, dunque la ricerca di una modalità più spontanea possibile per esprimersi e, detto questo, non possiamo che interessarci a queste band e farne un po' di promozione.

Gabriele: Personalmente, da strimpellatore, sarei molto felice se qualcuno si interessasse alla mia musica, organizzare eventi con gruppi di vicenza a suonare è quindi un “fare agli altri quello che vorresti gli altri facessero a te” e un buon modo di sentire musica nuova e vedere amici e conoscenti all’opera in qualcosa che non sia la solita scuola, le solite prodezze del sabato sera. Forse un modo anche di conoscere qualche altro lato di queste persone. Per quanto riguarda i gruppi già più affermati (pur restando di nicchia, sto pensando ai “Distanti” e ai “FBYC” che Alessio ha intervistato con splendidi risultati), c’è da dire che in Italia non siamo poi messi così male a livello musicale, ci sono un sacco di gruppi in gamba, il nostro è un modo di promuoverli nel nostro piccolo.

Bruno: con quale pretesa potremmo parlare d'altro? veniamo dalle cantine a dirla come dici tu, cerchiamo di comunicare alle persone la nostra realtà, quello che ci appartiene, non parliamo di fantasmi, i gruppi e le band che spingiamo, i ragazzi che intervistiamo, sono tutti gente della strada, come te, come noi.


- Qual è stata la reazione che voi giudicate più positiva nei confronti del vostro lavoro? E la più negativa?

Alessio: non saprei dire con precisione, certo quando vengono a farci i complimenti o a dirci che anche lui/lei, lettore x, scrive e gli piacerebbe pubblicare, ecco, quanco ciò accade, significa che stiam riuscendo in ciò che proponiamo. La reazione più negativa è sicuramente l'indifferenza, ma ci sprona a migliorare.

Gabriele: ce ne sono state varie, dal messaggio arrivato la notte che abbiamo dato il primo numero a un caro amico nel quale costui ci ringraziava per la piacevole lettura. Ai racconti di amici che, portandosi la fanza in viaggio, han conosciuto persone che sono rimaste piacevolmente colpite dal nostro lavoretto.
Reazioni negative specifiche non saprei bene, qualche volta ci è capitato di trovare fanze buttate con noncuranza per terra dopo che le avevamo smerciate e questo ci ha lasciati un po’ amari, però immagino sia normale che a qualcuno interessi meno il nostro lavoro di altri, poi magari eran tipi sbadati, suvvia.

Bruno: personalmente, un compaesano rimasto scoinvolto (in termini positivi) dall'esistenza della fanza. Se in cento copie che distribuiamo, anche solo una persona riesce a cavarne fuori qualcosa per se stessa, uno spunto di riflessione, un pensiero, io credo che dovremmo dirci soddisfatti, se poi qualcuno ci chiede di pubblicargli un racconto una poesia o qualsiasi altra cosa, allora non possiamo chiedere di più.


- Vicenza è un bel posto o fa schifo? Argomentate.

Alessio: Credo che Vicenza non sia malaccio, certamente, per chi ama la musica e le feste, i posti sono pochi e le offerte ridotte e ripetitive (certo se ti piace l'hardcore, l'hip hop o il reggae non credo ci siano molte altre città di provincia a questi livelli). Inoltre ora le cosa stanno migliorando, basta vedere l'apertura del Bocciodromo o come è stata subito accolta con una bella mobilitazione l'ultima ordinanza di Variati (che poi di fatto non cambiava quasi nulla) a testimonianza che di gente con voglia di fare ce n'è.

Gabriele: Vicenza ha i pregi e i difetti della città piccola. Il centro è relativamente tranquillo e spostarsi non è poi così problematico, ha dei posti molto belli e i colli berici sono splendidi se si evita di andarci la domenica pomeriggio (dove ci sono appunti i “passeggiatori della domenica pomeriggio”). Certo poi il fatto che sia piccola porta al fatto che a un certo punto le persone bene o male si conoscono tutte, capita che non ci sia niente da fare. Un problema appunto è il fatto che a un certo punto non si sa più cosa fare di nuovo, diventa un po’ complicato trovare nuovi stimoli. Per fortuna non siamo gli unici a pensarla così e comunque qualcuno che si adopera a rendere più vivibile la città c’è, sto pensando alle attività degli amici Elemento di Disturbo o alle attività e potenzialità del Bocciodromo!

Bruno: Vicenza è bella, basta prenderla come viene e non farsi troppe aspettative; certo alcune giornate sono mortificanti, ma stiamo lavorando anche a questo


- Progetti per il futuro?

Alessio: diciamo che La Lotta Armata Al Bar è stata ripensata all'interno di un "contenitore" che si chiama Onan l'Onirico e che si divide in produzioni editoriali, organizzazione di piccole serate/evento, distribuzione di dischi che più indipendenti non si può, produzioni pseudocinematografiche e tutto quello che ci verrà in mente. A proposito, se avete proposte, noi ci siamo!

Gabriele: Diciamo che per quanto riguarda la fanza non ci sono attualmente progetti di stravolgimento del format eccetera (qualche idea era venuta fuori per il sesto numero che poi è stato comunque fatto come sempre), ovviamente cercheremo di coinvolgere sempre più gente, che è uno degli obbiettivi principali di tutto l’ambaradan che facciamo in fondo.
Per quanto riguarda eventi e cose varie incrociamo le dita perché potremmo ampliarci da quel punto di vista organizzando qualche concertino non male, ma è tutto sempre sul forse (e lo sarà se tutto va bene fino al giorno prima), quindi sempre speranzosi per il futuro e come dice Alessio aperti a proposte di qualsiasi tipo.

Bruno: tanto sano amore, CIAO!

mercoledì 6 aprile 2011

Montag oder Mittwoch #1 - Quattro traslochi e mezzo

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Se pensate che il problema principale del mio trasferirmi a Berlino sia stato imparare il tedesco vi sbagliate di grosso: la cosa più difficile a Berlino è trovare una stanza.
La mia esperienza bolognese non mi aveva certo fatto le ossa, in questo senso. Lì avevo trovato sempre dimora dopo massimo due giorni di ricerche. Pensavo che a Berlino sarebbe andata ugualmente.
Appena atterrata in Cruccolandia mi diressi sicura verso casa della mia amica Elisa. Conoscevo la strada perché ero già venuta un paio di volte a trovarla. A casa sua avrei dormito fino a quando non avrei trovato una sistemazione. Anche la storia della mia amica Elisa, in quanto alla ricerca di case, non mi dava una visione veritiera della situazione. Continuo a credere che lei abbia avuto un culo esagerato: non c'è altra spiegazione. Il suo appartamento si trova al confine tra Kreuzberg e Neukolln, due dei quartieri più famosi di Berlino, a pochi passi dalla fermata di ben due linee della metropolitana. L'appartamento è luminoso, la cucina spaziosa, il bagno pregevole, la stanza grande, il pavimento in legno. Costa duecentotrenta euro tutto compreso. Sì, avete capito bene. Ma non è il prezzo ad essere straordinario (a Berlino è una cifra bassa ma nella media) quanto il fatto che lo trovò dopo averne visionati appena tre. Io credo di averne visti una cinquantina. La mia ricerca, cominciata quel giorno, si prolungò per mesi.
Primo problema: avevo risposto agli annunci tramite mail e pochissimi si erano degnati di riscrivermi. Non avevo il coraggio di telefonare. Il mio tedesco si limitava ancora a “Ciao” e poco altro.
Secondo problema: ogni appuntamento per la visione della stanza era in realtà un casting con tipo venti persone. Anche in quel caso la mia capacità linguistica non aiutava. Me ne stavo muta, non capivo niente e apparivo ovviamente come una sfigata. Fu dopo uno di questi stupidi casting che mi concessi il mio primo piantino in terra straniera. Sulle sponde di un fiume, in una bellissima giornata di sole: mi sentivo così sfigata in confronto a tutto il resto.
Due giorni dopo mi trasferii in una stanza che era libera solo per dieci giorni. Era un appartamento enorme, con ben otto coinquilini! Durante quei dieci giorni la mia ricerca procedette senza troppi cambiamenti. Alla fine del subaffitto ero ancora senza stanza. In quei dieci giorni ero però riuscita ad innamorarmi perdutamente di uno dei coinquilini. Fortunatamente lui sembrò ricambiare e potei dormire lì ancora per qualche giorno. Alla fine trovai una stanza a Charlottenburg, uno dei quartieri più ricchi e tremendamente noiosi della città. Per bilanciare gli otto coinquilini di prima, nel nuovo appartamento ne avevo solo una, Theresa, che non vidi quasi mai. Anche questa stanza era in subaffitto. Dopo un mese mi trasferii quindi a Prenzlauer Berg, in casa con Richard e Martin. Tutto era molto grazioso, ma la stanza era veramente piccola. Convinta di aver trovato un'altra soluzione, diedi disdetta al contratto. Una settimana prima di trasferirmi ricevetti disdetta anche dall'altro appartamento: ero nuovamente in mezzo alla strada. Seguirono nuovamente pianti e disperazioni fino a quando non trovai dimora a Kreuzberg, in casa con Florian. Casa di Florian era un appartamento vecchio, buio e con il riscaldamento a stufa. Al piano di sotto c'era un bar che faceva karaoke fino alle cinque del mattino. Inoltre l'appartamento era stato completamente dipinto da un pittore sotto acido. Sul soffitto della cucina era dipinto un drago e, di fianco al frigorifero, dei funghi enormi. Dopo un paio di settimane trovai finalmente una dimora stabile, che è quella dove risiedo tuttora. E' un appartamento molto grande in pieno centro a Kreuzberg. L'appartamento lo divido con Giulia e Pancho. Quando mi trasferii lì, credo che passai la prima settimana chiusa dentro le mura di casa. Non me ne fregava più niente di tutto il movimento che c'era là fuori: la cosa più eccitante, dopo quasi cinque traslochi, era che finalmente avevo un posto fisso dove stare!

martedì 5 aprile 2011

Ho fatto le elementari del libro "Cuore", II puntata

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"Io volevo solo fare la madonna".

Verso fine ottobre, in una mattinata qualsiasi, nella mia classe come nelle altre della scuola, si assisteva al rito della distribuzione delle parti per la recita natalizia. Ovviamente la scelta veniva effettuata in modo univoco ed indiscutibile dalla maestra, la quale procedeva nel casting basandosi sul criterio del merito scolastico e della "bontà" del bambino in questione. La pièce, di altissimo spessore artistico, era una sorta di trilogia: annunciazione-scenette morali edificanti-natività. Inutile sottolineare come il ruolo principe fosse quello della Madonna: la Madonna era la star, restava sulla scena per tutto lo spettacolo, bella nel suo vestitino celeste col velo candido, attorniata da uno stuolo di comprimari pastori, angioletti e devoti. Per l'occasione la fortunata bimba poteva aspirare anche ad un velo di trucco prima della recita. Tutti gli occhi sarebbero stati puntati su di lei.
Io ero una narcisista con una marcata vena istrionica e volevo con tutto il mio cuore essere la Madonna. Chiaramente, data la mia condotta non esemplare, il mio spirito per nulla remissivo, la mia resa scolastica mediocre non potevo aspirare a tanto. Mi ero rassegnata ad una parte minore, una parte qualsiasi che meritasse il mio impegno di attrice consumata, e invece, con inaudito sadismo, la maestra mi scelse per ben tre anni di fila come "presentatrice". In che cosa consisteva questo ruolo? Dovevo entrare in scena e presentare, con una breve frase, le varie parti dello spettacolo. Una noia infernale. Nessun costume di scena. Nessun ruolo in cui immedesimarsi. Mentre gli altri si preparavano dietro le quinte io me ne restavo la stessa Caterina di sempre. Quando al casting della quarta elementare, per l'ennesima volta, mi venne affidato l'odioso ruolo di presentatrice, mi colse lo sconforto più totale. Data la rara inutilità del mio personaggio, durante le prove me ne stavo seduta su una panchetta a guardare gli altri che recitavano le battute e si muovevano sulla scena.
"Ti saluto, o piena di grazia, il signore è con te. Ti annuncio una grande gioia...". Stavo seduta e ascoltavo tutto, vittima di un'invidia corrosiva che probabilmente ha gettato le basi per la mia gastrite. Il giorno prima della recita avvenne l'imponderabile: la Madonna era caduta ammalata, vittima di un'influenza che la teneva a letto con più di 38 di febbre.
Dramma: la maestra, vittima della sua stessa decisione di riconfermare per più anni di seguito la stessa bambina nel ruolo di Madonna, non sapeva letteralmente a che santo votarsi per salvare lo spettacolo. Fu il mio momento. Dotata da sempre di una memoria uditiva discreta sapevo tutte le battute (non solo della Madonna, ma anche dell'Arcangelo Gabriele, di San Giuseppe e, per sicurezza pure di qualche pastore) ed ero in grado di sostituire la prima donna.
A malincuore la maestra si vide costretta a darmi la parte e per le prove generali fui al centro della scena. Nella mia mente era come aver raggiunto il palcoscenico di una prima della Scala.
Nel pomeriggio mia mamma si munì di pazienza e si procurò un vestitino azzurro e un piccolo velo: avevo il mio costume. La mattina dopo la classe era tutta un fermento per la recita del primo pomeriggio. Ricordo che andai a mangiare in mensa tutta eccitata per l'imminente evento.
Ora potete immaginare la mia delusione quando vidi comparire dopo pranzo la prima Ma-donna febbricitante, accompagnata dalla mamma, tutta rossa in faccia ma in piedi e vestita di tutto punto. Era venuta a riprendersi la sua parte e io me ne tornavo a fare la presentatrice.
I giorni seguenti in classe ci furono parecchie assenze per influenza (dagli all'untore!) e una bambina dai sogni infranti, che ci mise qualche settimana per riprendersi dalla delusione. L'unica cosa che ho imparato dalle recite di natale è stata l'amara lezione del non farsi illusioni.
Nella prossima puntata: i lavoretti da portare ai genitori, ovvero quando un'attività creativa diventa una gara al manufatto artigianale di pregio.

lunedì 4 aprile 2011

EDIT festival: resoconto di un’ignorante

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Sono andata per voi (non è vero, non sono andata per voi) all’EDIT festival a Marghera. Al che? E infatti! Non ne sapevo nulla nemmeno io. Il che è comprensibile, dato che è un – sottotitolo del festival – “Meeting delle Etichette Italiane di Musica Elettronica”. O forse dovrei dire IL meeting, dato che è l’unico in Italia, e siamo solo al secondo anno in cui lo fanno.
Il mio approccio alla musica elettronica è molto recente: avendo sempre ascoltato principalmente musica rock e similari, sono dolcemente passata a generi di elettronica che possono ritenersi più vicini al rock. Un esempio? I Prodigy, che mettono insieme tastieroni tamarri, schitarrate distorte e ritmi drum’n’bass, sono stati il mio primo passo in questo senso. Più in là dei Daft Punk, comincio a perdermi. Al limite, giusto un po’ di jungle, drum’n’bass e psy-trance.
Si può quindi immaginare la mia completa estraneità all’ambiente dei dj, delle discoteche e della techno napoletana (non lo sapevo, ma Napoli è un floridissimo vivaio di musicisti di questo genere). Trascinata a Marghera dal mio ragazzo, che si diletta a suonare drum machine e sintetizzatori, sono arrivata al Rivolta* da perfetta aliena, e da aliena ora vi descrivo quello che ho visto.
Siamo arrivati prestissimo per non perderci il “workshop” sulla promozione delle etichette discografiche a livello europeo. Non si può dire che la stanza straripasse di gente, e c’erano praticamente solo addetti al settore. Ospite speciale era Sandra, una ragazza di Berlino che aveva fondato una specie di associazione delle etichette di musica elettronica tetesche. Essendo lei per l’appunto tetesca, l’intervistatore, un giornalista di non ho capito bene cosa, è stato costretto a farle domande in inglese. Non è stato un particolare problema: gli spettatori sembravano capire, e lei parlava chiaramente. Il problema era che non sapeva cosa dire! Le domande erano chiaramente mirate ad estrapolare qualche segreto riguardante il perché in Teteschia la musica elettronica ha reso Berlino la capitale europea del genere, mentre in Italia le etichette annaspano e gli artisti fuggono all’estero. Sandra, candidamente, ha detto che la chiave del successo di Berlino è il tessuto sociale delle etichette, e che lei non ha fatto altro che andare in giro a feste a conoscere gente e mettere tutti insieme nella sua associazione (una onlus). Così hanno potuto e possono far valere le proprie ragioni con le istituzioni, che hanno capito che la musica è diventata la risorsa principale della zona e la favoriscono, e vissero tutti felici e contenti. Punto.
Questa semplicità ha scatenato le reazioni dei rappresentanti delle etichette nostrane, che provenivano davvero da tutta Italia: dopo un’incerta partenza in inglese con pesante accento napoletano-emiliano-veneziano-pugliese, la discussione si è rovesciata in un flusso italianissimo ed incessante di lamentele. Ma qui non funzionerebbe, le istituzioni non ci ascoltano, non appena un’etichetta diventa famosa se ne frega di tutte le altre, quelle piccole fanno la fame e devono pagare la SIAE, la nostra è la tassa sui diritti d’autore più alta del mondo, e nessuno le aiuta, qui a intascare i soldi sono sempre i soliti e non i più bravi, e via così…
Il giornalista traduceva qualcosa alla povera Sandra, che non sapendo bene come comportarsi fumava una sigaretta dopo l’altra. La parola è stata quindi affidata a uno di soundwall, la più accreditata rivista on-line di musica elettronica, che intervista molti artisti internazionali. Il fatto è che molti degli intervistati sono italiani, solo che sono fuggiti all’estero. Perché? E cosa possono fare le etichette italiane? Il ragazzo ha banalmente suggerito di puntare sulla qualità. Puntare sulla qualità? Qui la folla si è inviperita, e qualcuno ha messo sotto pressione gli ospiti ricordando che si trattava pur sempre di un workshop, non di una discussione tra amici, e che nei workshop a Berlino invece sì, che insegnavano veramente a fare qualcosa. Risultato: non si è cavato un ragno dal buco.
Una ragazza pugliese ha portato ad esempio la sua esperienza, toccando forse il nervo scoperto di tutti i presenti in sala: incurante delle difficoltà italiche, organizza un festival di musica elettronica nel Salento. Il problema? Che quando chiama grandi nomi commerciali la gente accorre a frotte, ma quando “punta sulla qualità” con i piccoli e virtuosi artisti italiani, non viene nessuno a vederli. Insomma, in Italia la gente è musicalmente ignorante. E da qui come ne esci?
La discussione si è andata quindi spegnendo, parlando un po’ di come funziona bene a Berlino e un po’ di come funziona male qui, dove la gente è ignorante e dove le istituzioni fanno tutto il contrario di ciò che bisognerebbe fare.
La (comica – e tipicamente italiana) conclusione del workshop? Di comune accordo, si è deciso che aver scritto “workshop” nel programma era stato un errore, dato che in fin dei conti nessuno aveva insegnato o imparato niente, e che sarebbe stato meglio scrivere “incontro” o “dibattito”.
Dopo questa catarsi di gruppo la gente stava visibilmente meglio, e si è alzata per andare a cenare. Io poi, che non ne potevo più delle loro pippe mentali e che non avevo neanche pranzato, stavo morendo di fame, e con immensa soddisfazione mi sono lanciata sulle melanzane alla parmigiana con contorno di peperonata della mensa del centro sociale. E’ stato bellissimo.

Dopo aver placato lo stomaco ci siamo diretti in un altro capannone, dove c’erano i banchetti delle varie etichette. Io, che dopo il worksh…ehm…dibattito non avevo un’idea ben definita di cosa facciano queste benedette “etichette”, non riuscivo a raccapezzarmici: tavolini pieni di oscuri vinili, cuffie, macchinari strani, magliette, borse, gadget, adesivi dal design tanto strafigo quanto non esplicativo. Da nessuna parte c’era scritto qualcosa del tipo “noi facciamo questo, questo e quest’altro”. Dietro i tavoli stavano gli stessi che al dibattito facevano battute simpatiche e parlavano con il cuore in mano, ma ora per la maggior parte si erano chiusi in un contegno freddo e vagamente snob… insomma, se la tiravano. Qualcuno tanto che, alla nostra domanda “che musica fate?” ci ha chiesto se, insomma, non avevamo mai sentito parlare della loro etichetta?!? Girandosi dall’altra parte e non ritenendoci degni di risposta.
Il nostro obiettivo era lasciare i demo del mio ragazzo ai rappresentanti delle etichette, che da quanto ho capito dovrebbero aiutarlo nella promozione e pubblicazione. Alla fin fine, quelli che sembravano i paladini della musica di qualità si sono dimostrati alquanto freddini (con un paio di eccezioni) o addirittura sgarbati alla proposta di sentire un possibile artista da inserire nelle loro scuderie. Certi erano addirittura reticenti nell’accettare un lavoro registrato un po’ male, dimenticando il fatto che se uno è già perfetto, perché dovrebbe chiederti aiuto e collaborazione?
Insomma, è inutile che ti lamenti che la gente è ignorante se poi non fai nulla per istruire chi vuole farsi istruire. Ed è anche inutile che ti lamenti che i musicisti scappano all’estero se tu vai in giro col paraocchi. Eh!

* nota per chi non è della zona: il Rivolta è un ex complesso industriale, convertito in centro sociale e composto da ampi spazi ricavati dai capannoni. Ospita molti concerti ed eventi vari. In particolare, una volta al mese ospita il famoso Altavoz, che porta a Marghera artisti della musica elettronica.

giovedì 31 marzo 2011

Fare muro

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Ora, non so se vi sia sfuggito un insignificante dettaglio: siamo in guerra con la Libia. Okay, forse dire “siamo” non è la parola giusta, visto che noi non sganciamo bombe, non spariamo, non attacchiamo soldati, mercenari, eccetera eccetera (insomma, siamo lì per fare una passeggiatina in Libia a quanto pare! Un po’ di sano turismo internazionale!) ma comunque al momento lì è in corso una guerra. Che sia guerra umanitaria, non umanitaria, per il petrolio, lampo, lunga, tattica, di sfiancamento non me ne frega niente: stiamo (stanno) bombardando qualcosa? Muore della gente? Bene, quella è guerra. Il resto sono parole al vento.
Ma quest’umile post non intende disquisire sulla guerra libica, ne hanno già parlato abbastanza. Parla dei profughi a Lampedusa. Ma non della situazione dei centri d’accoglienza o dell’arrivo continuo di stranieri o del problema dello spostamento di questa massa di gente. Parla di come la gente vede questa massa di gente.
“Madonna sti immigrati del cazzo che fastidiosi!! Si lamentano perchè non sono stati accolti bene e perchè non sono in buone condizioni??? ma ringraziate Dio che avete il culo al sicuro e un posto dove stare!”*
Che fastidiosi.
Che schifo.
Non possono stare a casa loro?
Vengono solo per spacciare.
Infatti vedi come sono cresciuti i crimini a Lampedusa!
Poi arrivano qua e rubano, stuprano, spacciano…
Che li ributtino in mare!**
Ma facciamo più schifo noi seduti dietro i nostri schermi a commentare inutili post su Facebook o loro, accatastati in centri di accoglienza che dire che sono affollati è eufemistico?
Anche se nei 6200 immigrati attualmente a Lampedusa ce ne fosse uno che veramente necessita d’asilo (e non credo che sia uno solo) non sarebbe forse nostro dovere concederglielo?
E come si fa a concederglielo, l’asilo politico, se è automaticamente visto dalla gente come “feccia”?
Come si fa a dirgli che l’Italia è la sua nuova patria?
Ma soprattutto, quando capiremo che fuori da questi maledetti confini italiani siamo noi gli ”immigrati del cazzo”? 

*   post realmente esistente su Facebook
** commenti sentiti dalla sottoscritta durante 15 disgraziati minuti da autobus

lunedì 28 marzo 2011

GENTLEMEN BRONCOS: il delirio fantascientifico che non ti aspetti

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Serpenti che cacano copiosamente sulle spalle dei loro proprietari; adolescenti che si scambiano un bacio non prima che uno dei due abbia riversato il contenuto del proprio stomaco nel primo cestino in seguito ad un impulsivo conato di vomito; malvagi antagonisti spaziali che privano l’eroe principale di una gonade per portare avanti il loro diabolico piano di distruzione…
Gentlemen Broncos” (2009) non è un film che conquista con facilità il cuore del pubblico (quelli che vi ho elencato sono solo alcuni esempi delle scene in grado di scatenare il nostro imbarazzo e/o la nostra perplessità di spettatori); ma parliamo pur sempre di un film di Jared e Jerusha Hess, in qualche modo questa coppia di cineasti (già autori del nerdissimo “Napoleon Dynamite” e del combattivo “Nacho libre”) ci ha abituato agli improvvisi lampi di sconcerto (salto sulla sedia seguito dalla consueta esclamazione “ Ma come?! Hhh!” ). Tuttavia, se almeno un po’ ci si fida di loro, il film lo si può continuare a guardare.




La trama principale del film, si badi, è di per sé semplice e appassionante: Benjamin Purvis (interpretato da Michael Angarano, a destra nella foto qui sopra) è un ragazzo piuttosto timido con una grande passione per la fantascienza e la scrittura che vive con la madre (Jennifer Coolidge, con Angarano nella foto), stralunata vedova che si arrabatta per sopravvivere cucendo vestiti oversize di dubbio gusto e provando a rivenderli a prezzi proibitivi. Un giorno Ben partecipa ad un Laboratorio di scrittura creativa, dove incontra il suo mito: Ronald Chevalier (l'ottimo Jemaine Clement, già visto nei Flight Of The Conchords), scrittore fantasy che esordì ad appena 15 anni, grazie ad una brillante trilogia letteraria sulle Cyborg Arpìe. Ai partecipanti al corso viene offerta la possibilità di pubblicare un proprio lavoro, previa accettazione di una giuria “comprovati professionisti dell’editoria” (di cui fa parte lo stesso Chevalier). Benjamin decide così di tentare la fortuna col suo ultimo racconto “I signori del lievito: gli anni di Bronco”, una storia evidentemente di fantasia che ha come protagonista Bronco (interpretato dal bravo Sam Rockwell), un irsuto guerriero, la cui figura si ispira, per ammissione dello stesso giovane autore, al padre scomparso da tempo. Si scopre in fretta, però, che l’esimio Dr. Chevalier è in realtà uno scrittore in piena crisi creativa che rischia di essere abbandonato dal suo editore se non riuscirà a consegnargli entro breve un nuovo bestseller. Dopo aver letto la storia di Benjamin (da un quaderno sgualcito sulla cui copertina il ragazzo aveva provato a creare un’accattivante coverart), il romanziere decide di plagiarla (aggiustandone giusto qualche particolare) e di presentarla al proprio editore come la mirabolante storia di Brutus e Balzaak (dove Brutus è in realtà Bronco, qui trasformato in transessuale con un nuovo nome, mentre Balzaak non è altri che il suo cane). Neanche a dirlo, il libro è un successo.


Nel frattempo Benjamin, che aveva abbandonato il corso prima della sua conclusione (irritato e deluso dalla spocchia di Chevalier), vende (per dei soldi che non vedrà mai) i diritti de “I signori del lievito” ad un paio di amici: Tabatha (Halley Feiffer), che si era da subito interessata alle sue storie e Lonnie (Héctor Jiménez, capace di sfornare alcune delle più fastidiose smorfie facciali mai viste) un sedicente filmmaker di successo che ritiene si possa ricavare dell’ottimo materiale dalla storia di Bronco. Purtroppo per Ben, il risultato di questa improbabile collaborazione sarà un disastro. A consolarlo ci penserà però Dusty, il suo angelo custode (?) proprietario del sopracitato serpente scagazzante, interpretato da Mike White (già visto in "School of rock", è peraltro co-autore della sceneggiatura).
Ma non voglio svelarvi il finale. Vi basti sapere che non mancheranno i colpi di scena, così come non verranno meno le stramberie che fin dall’inizio del film ci hanno fatto dubitare dei nostri sedimentati buoni propositi ( #15 sforzarsi sempre di guardare un film dall’inizio alla fine). Quella che vi ho delineato poc’anzi è la linea principale su cui si muove la narrazione del film. Ad essa però vengono talvolta inframmezzate e la trasposizione filmica casalingo-kitch di Lonnie e le sequenze fantasy in cui assistiamo allo svolgersi progressivo della storia di Bronco (sia nella versione originale di Benjamin che in quella plagiata di Chevalier). A titolo di cronaca vi basti sapere che Bronco non è altri che l’ultimo tra i Signori del lievito (una sostanza misteriosa apparentemente in grado di infondere grandi poteri se ingerita), cui l' acerrimo nemico Lord Daysius ha asportato un testicolo per mettere in piedi una terribile armata a sua immagine e somiglianza. Bronco, con l’aiuto di Vanaya (Venonka, nella versione-plagio) una ragazza che potrebbe essere sua sorella, tenta di assaltare la fortezza sulla montagna dove il nemico conserva il lievito. Ci sarà una grande battaglia a colpi di raggi laser, robot-cervi vedetta ed acrobazie mirabolanti. Hell yeah.


La cifra stilistica dei coniugi Hess sembra proprio essere quella della Oddity, della stranezza, della bizzarria. Qui nulla andrebbe preso sul serio; tutto è parodia: la letteratura fantasy e il mondo degli scrittori i bersagli principali. Non vi mentirò: la critica ha stroncato questo film. Sembra che solo pochi appassionati del genere (forse più tolleranti) siano riusciti a trovarci qualcosa di buono. Io non vado pazza per la fantascienza e ammetto di essermi trovata in difficoltà a mandar giù alcuni momenti della pellicola, ma mi son fatta coraggio e ho guardato il film per intero: ne è valsa la pena. Sarà la brillante colonna sonora che, a partire dalla stratosferica “In the year 2525” di Zager & Evans fino all'intramontabile “Paranoid” dei Black Sabbath che corona un’assurda sequenza d’azione (Benjamin che affronta Don Carlos – l’attore John Baker – un miliardario che aveva fatto una proposta indecente a sua madre) rendendola persino plausibile ed entusiasmante, non sbaglia un colpo. Io alla fine mi sentivo bene, il finale mi aveva rincuorato. Spero di avervi incuriositi un po’. Per il resto … "Possa la lucentezza del cromo della Regina Cyborg illuminare lo spirito di tutti noi".
Alla prossima.

venerdì 25 marzo 2011

Mordimi Tutta, o quello che sta succedendo alla letteratura per adolescenti

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Quando Harry Potter è stato spostato dalla letteratura per ragazzini alla sezione classici, un enorme vuoto si è aperto nella sezione young adults. Questo buco è stato riempito da un miliardo di copie della nostra saga romantico-necrofila del cuore, Twilight.
Lunedì scorso sono andata in gita da Waterstone's Piccadilly, la mia libreria preferita (di cinque piani enormi, con dentro una cartoleria, un reparto riviste ed un bar - praticamente il paradiso) ; nonostante il terrore mi attanagliasse, mi sono inoltrata come un ninja nell'area bambini ed ho documentato lo stato agghiacciante di quasi metà del secondo piano.
L'era dei vampiri ha trasformato la sezione giovani lettori in un altare a qualsiasi genere di creatura sovrannaturale – dai vampiri ai mannari, con una quota politica di alieni, fantasmi e una gamma infinita di mostri e mutaforma. Si può trovare di tutto – letteralmente, eh – sotto il classico logo a W, a cui un designer sottopagato ha aggiunto un paio di canini vampiri per l'occasione.
C'è una quantità praticamente infinita di libri dagli intriganti titoli mono-parola (Torment, Crescendo, Forbidden e Halo, tanto per fare un po' di esempi) ma anche eleganti esempi di riferimenti alla Thatcher – probabilmente involontari – in Iron Queen.
Ma la parte peggiore della è decisamente l'ampia gamma di rimaneggiamenti dei classici.
Quando gli editori si vergognavano a stipendiare gente per queste baggianate, hanno ingaggiato una manica di grafici disperati e hanno rifatto le copertine dei classici in modo che assomigliassero a Twilight.
Mi è passata davanti la versione bianco-rosso-nero di Cime Tempestose, insieme ad una copia di Amleto con attaccato un adesivo che diceva “The ultimate brooding teenager!” (Il teenager più tormentato di tutti).
Immaginatevi una preadolescente con i bollori per Edward Cullen, seduta sotto il suo poster grandezza naturale di Robert Pattinson che cerca di capire cos'abbiano in comune Eddino e Amleto. Ecco, infatti.
In altri casi, della gente senza alcuna dignità è stata pagata per venire fuori con delle perle da brivido: ci sono i titoli famosi come Pride, Prejudice & Zombies e Sense, Sensibility & Sea Monsters, ma anche volumi imperdibili Frankenstein's Girl e Jane Slayer. Oppure volete fare finta di non sapere neanche che esistono, e vi capirei perfettamente.
“E' diventata una vera mania dopo Twilight” ha detto Alex, commessa di Waterstone's apertamente anti-Cullen. “Non posso credere che abbiamo un'intera sezione di questa roba” ha confessato mentre mi tirava fuori una copia della sua disgrazia letteraria preferita, Jane and the Damned, e leggeva ad alta voce il sottotitolo: 'It's more than her wit that's biting' (non è solo la sua arguzia a mordere).
Onestamente, l'unica cosa che volevo mordere era la testa dell'autore.
La morale è che forse in Italia la situazione non è ancora così devastante, ma dal resto del mondo stanno facendo di tutto per rincretinire la generazione che viene dopo la nostra.
Ho cercato disperatamente, prima di trovare tracce di normalità – Guida Galattica per Autostoppisti, o cose tipo Jacqueline Wilson o Philip Pullman o Terry Pratchett – ed è stato difficilissimo.
Io in seconda media leggevo ancora Bianca Pitzorno perché ero un po' lenta, ma a quanto pare mia cugina per il suo compleanno vuole la serie completa di The Vampire Diaries.
Vorrei non chiudere questo post con una frase alla “ah, quand'ero tredicenne io” e “sui giovani oggi ci scatarro su”, ma mi sembra che il tutto si stia sempre più uniformando verso il basso.
Se neanche i libri possono più aiutare ad uscire dall'abisso di ignoranza agghiacciante in cui stiamo precipitando, io comincerei a preoccuparmi un pochino.

giovedì 24 marzo 2011

Lady Gaga is part of This-Endless-Revival

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Gaga Haters LTD

Non so chi di voi abbia visto la performance pre-fama di Stefani Germanotta a Mtv Boiling Points. Ecco, per farla breve, c'è lei che si incazza artificialmente con una cameriera scazzona che le restituisce il piatto che le aveva tolto mentre lei era uscita a fare una telefonata, ma con un bel tovagliolo di carta appallottolato sopra. Stefani è la prima tra i concorrenti a mandarla a stendere. Tra le sue prime comparse in video c'è anche una scena nella serie tv – giustificabilmente di culto - dei Soprano, in cui il giovane A.J. organizza una festa di vandalismo nella piscina della scuola. Inutile dire che lei è una delle invitate. Viene ripresa – avrà sedici anni – mentre ride con una bottiglia in mano.
Il termine Haus of Gaga potrebbe indicare un'avanguardia artistica, non fosse altro per una poco coerente scelta linguistica. Credo che il termine più appropriato sia House of Gaga, analogamente alla House of Deréon di Beyoncè, a definire una qualsiasi casa di moda, con la differenza che apparentemente è Beyoncè a sfornare vestiti e non il contrario.
Credo sia proprio questo il punto. La House of Gaga è un'industria assoggettata al successo di un singolo quanto i migliori ministeri propagandistici dittatoriali. Chiunque abbia un minimo di gusto musicale – che in una certa misura non può non essere dettato dalla conoscenza anche intuitiva della sua storia – non può che esserne disgustato. Qui inserisco un period concettuale enorme, a dire che ci sono anche artisti della contemporaneità che non ritengo essere meritevoli di comparazioni con altri - del passato ma anche del presente – come si fa in quelle parentesi a volte poco plausibili nelle recensioni musicali qui in giro sul web, generando di solito vorticose rotazioni dei bulbi oculari nel lettore erudito.
C'è stato anche un tempo – e in buona parte c'è ancora - in cui la mancanza totale di contenuto e/o di capacità di un artista era compensata dalla sua - altrettanto abilmente orchestrata - parvenza scenica. Questo restava confinato nella sfera dell'implicito, e chi non era condannato al possesso di un senso critico neanche se ne accorgeva. Questo è un pudore andato perso, a mio parere uno dei pochi che sarebbe stato il caso di mantenere. Lady Gaga che dice “voglio solo essere la star più famosa del mondo” facendone un proposito concreto è uno schiaffo alla dignità degli artisti non dotati di un tale solidissimo apparato iperpromozionale e svela in maniera anche odiosamente parziale un mondo, quello dell'industria delle popstar globali, che per qualsiasi essere pensante non è nient'altro che deprimente. Lo è altrettanto la pretesa di dare credibilità warholiana a questa presunta riflessione sulla fama, per cui lancio un secondo period maggiore del primo, lasciando a tutte le persone di buonsenso l'onere di giudicare se questo mero reinvestire il guadagno di un buon investimento iniziale sia tacciabile di una pretesa artistica maggiore di quella espressa nel film Zoolander.
Per farmi un'idea iniziale di Lady Gaga ho fatto quello che ogni suo fan dotato di buonsenso dovrebbe fare. Ho guardato una sua intervista televisiva. E magari più di una. Non ci vuole una scienza per capire che la ragazza non ha una grande personalità comunicativa da accompagnare al suo outfit. Confido nella possibilità che presto si smetta di credere al fatto che l'abito sia espressione di personalità per un individuo di tal fatta, per il quale si potrebbe tranquillamente affermare che sia l'abito ad aver fatto la monaca.
Mi rendo conto che sto facendo il gioco scemo di Lady Gaga quando scrivo nel ruolo di suo detrattore. E' puramente funzionale alla sua esistenza di presunta costante trasgressività, seppur stolidamente giustificata da frasi fatte da dentista tipo “Suona il piano da quando aveva quattro anni”, che comunque non è dotata di alcun senso. Per questo sarebbe stato più coerente non scriverne, per non fare neppure da amplificatore involontario. Non faccio che tradire una mia sporadica fiducia, penso a volte con qualche inspiegato candore che anche lei condividerà il destino delle altre artiste della sua risma e che nessuno si ricorderà di lei come espressione di qualcosa, se non facendo spallucce come per una cosa ovvia.

mercoledì 23 marzo 2011

Ho fatto le elementari del libro "Cuore"

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O anche di come la pedagogia non sia una scienza esatta e la Montessori sia passata inosservata per decenni in alcune enclave del piccolo ducato.

Quando ancora frequentavo le lezioni universitarie per la laurea specialistica (oh mio dio come sono vecchia!) ho seguito per alcuni mesi un corso di "Letteratura per l'infanzia e l'adolescenza", il massimo che il mio piano di studi offrisse, a livello di materia pedagogica, nell'offerta formativa per una futura italianista. Durante il corso ci sono state illustrate una serie di teorie volte a rendere i bambini e i ragazzi appassionati lettori, per insegnare divertendo e stimolando le loro menti e senza mortificarli o farli entrare troppo presto nel duro sistema che regge le sorti del mondo adulto. Tutte cose apprezzabilissime e sulla cui sacrosanta verità io non avrei messo becco se il professore non si fosse accanito nel sostenere che, seguendo metodologie differenti, si sarebbe andati incontro ad un sicuro fallimento pedagogico e successivo naufragio della carriera scolastica dei giovani virgulti. Perché mi sono sentita così tanto chiamata in causa da mettere a dura prova il mio self-control per evitare di venire massacrata all'esame? Perché io ho fatto le elementari del libro "Cuore".
Nessun metodo di "approccio lento" alla didattica, nessuna gradualità fra il disegno e il gioco e i primi rudimenti di scrittura. Fin dai primi giorni mi sono ritrovata alla lavagna a fare "le aste". Alcuni di voi non sapranno nemmeno in che cosa consista questa barbara pratica e dunque vado a spiegare, novella etologa o storica della contemporaneità. Il lavoro consisteva nel ripetere all'infinito sul foglio di un quaderno, oppure alla lavagna appunto, una serie di aste: l'equivalente dello slash oppure di un manico d'ombrello. Variava di volta in volta. Aste, su aste, su aste. Il piano pedagogico prevedeva l'uso iniziale della matita per poi passare alla biro (omologata e rigorosamente Pilot blu punta fine, marca che mai più in vita mia ho comprato per una sorta di rifiuto post traumatico). I bambini più bravi passavano per primi alla biro, i più somari dopo, i casi umani, come la sottoscritta, ci sono arrivati per ultimi dopo mesi e una discreta umiliazione. "No, tu continua a matita" detto davanti a tutti è frustrante, soprattutto quando stai ricopiando per la milionesima volta delle aste. Poi è stata la volta dei timbri. Uno dirà "belli i timbri, si possono colorare!": si, in parte vero, ma il timbro della lettera A-B-C-Q-F o dir si voglia, posizionato in cima alla pagina del quaderno in posizione centralissima, prevedeva poi l'estenuante copiatura di una parola che avesse come iniziale la lettera incriminata. In rosso la lettera iniziale, in blu le seguenti. Ape Ape Ape Ape Ape. In bella grafia, non basta che si capisca, e senza sbordacci. Io non ero una brava bambina. Diciamo che non ero satana, ma nemmeno tanto incline allo stare cinque ore a scuola e men che meno ad abbracciare la disciplina a me imposta dalla maestra (rigorosamente unica). Trovavo stupido ripetere allo sfinimento i nomi dei disegni appesi alle pareti con la lettera corrispondente all'iniziale del nome. "A...albero! Bene. B...barca! Bene. C...casa! Benissimo. G...Micio! No! Ma come ti viene in mente?". Sapevo benissimo che G stava per gatto, ma era umiliante, omologante, frustrante proseguire all'infinito il giochino, senza mai uno stimolo differente, qualcosa che potesse far emergere un pochino di quello che ci piaceva all'interno dei muri della classe. Ricordo distintamente che in classe non c'era nulla che mi piacesse. Amavo l'abaco, ma stava sempre chiuso nell'armadio, lontano dalle mani che potevano eventualmente giocarci nelle pause. Amavo i miei regoli, che dovevano però stare sempre ben chiusi nella scatola sotto al banco. Ero una bambina che adorava la televisione e quella che l'aula aveva in dotazione per i filmati educativi stava sempre coperta da un telo. "Niente film" era il dictat. A differenza di quanto avveniva in altre classi di miei coetanei. Noi fermi, "braccia conserte", come diceva la maestra. Dubito che oggi, se si dicesse a un bambino di prima elementare "Stai con le braccia conserte", capirebbe quello che gli si sta chiedendo. Ed è giusto così. Ma io vivevo nel libro Cuore. Matita rossa e blu per le correzioni, nessun atteggiamento materno, lo stimolo (o supposto tale) della prima della classe che veniva sempre presa ad esempio e lodata pubblicamente, il banco della vergogna di fianco alla cattedra. Insomma, ho le mie buone ragioni per dire che i concetti impartiti durante le lezioni universitarie erano quantomeno relativi se sono poi finita a fare un dottorato? Ho già accennato al fatto che la mia scuola era una scuola cattolica? No? Mi è in qualche modo servito? Beh...nelle prossime puntate, se avrete la pazienza di leggermi, magari avrò modo di parlarne.

martedì 22 marzo 2011

Aspettando il capolavoro: "21" delude, ma la fiducia in Adele non viene meno.

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Ho conosciuto Adele* ai tempi di “Chasing pavements” e del suo album di debutto, 19. Mi aveva molto stupito scoprirla mia coetanea: ad una prima vampata di invidia (lei aveva quella voce magnifica e io, quasi per contrappasso, non avevo nulla da offrire al mondo se non della lunaticità tardo adolescenziale), fece seguito un interessamento più serio e persino della discreta stima. Mi accorsi infatti quasi subito di come Adele fosse un’anomalia rispetto alle popstar anglofone under 30 da me conosciute fino ad allora: si presentava in pubblico anche senza trucco, non faceva una mania dei carboidrati assunti giornalmente, ma si dedicava piuttosto a ciò in cui era evidentemente più abile: cantare.

Il primo album uscì nel febbraio del 2008, quando Adele – come me – non aveva ancora celebrato i suoi vent’anni, e per questo venne intitolato 19. Oltre a “Chasing pavements” il disco conteneva molti altri pezzi meritevoli, ma tra tutti spiccavano il pezzo di apertura (“Daydreamer”) e quello di chiusura (la melanconica “Hometown glory”): una ballata acustica ove si descrive in modo commovente un boyfriend “ideale” sotto molti aspetti (per ammissione di Adele stessa i riferimenti sono tutti per un ragazzo di cui era stata perdutamente innamorata, ma con il quale le sarebbe stato impossibile avere una vera storia perché lui era bisessuale) e un pezzo in cui la cantante rievoca i suoi più cari ricordi di Londra, sua città natale (“Is there anything I can do for you dear? Is there anyone I can call?”/ “No and thank you, please Madam. I ain’t lost, just wandering”).


Poi venne il secondo album. Uscito nel gennaio di quest’anno, porta il titolo di 21 perché quella era l’età che Adele aveva quando iniziò a lavorarci (a questo punto immagino non sia così azzardato ipotizzare che anche un eventuale terzo album possa avere come titolo un numero a due cifre, verosimilmente compreso tra 23 e 30). Dichiarato album dell’anno dal tabloid britannico The Sun (!) “21” ha raccolto grandissimi consensi non solo nel Regno Unito, ma anche nel resto d’Europa, negli States e nella remota Nuova Zelanda. Qui da noi resiste stabile tra i quindici dischi più venduti, in ottima compagnia tra album sfornati di fresco dalla Factory di Maria De Filippi, Sanremo e dalla nuova ghenga di Liam Gallagher.
Attacchi di tosse convulsi e accesso di risa isteriche. Sorvoliamo sui gusti musicali dei connazionali, và.


Nonostante le cifre parlino di un chiaro successo di pubblico e critica, a me “21” non piace. O meglio, non è il sequel che mi aspettavo. Diamine, questa ragazza elenca tra i suoi miti Etta James, Peggy Lee, Billy Bragg e Jeff Buckley; con la voce che ha dovrebbe starsene a cantare il Blues dalla mattina alla sera e a consumare i condotti lacrimali di chiunque possa avere la fortuna di stare ad ascoltarla… e invece che fa? Mi caccia pezzi come Don’t you remember, che sembran scritti apposta per pusillanimi come Taylor Swift. Sgrunt.

Da parte mia avrei tanto voluto che il nuovo album fosse un unplugged. Niente fa risaltare una bella voce come una genuina performance acustica. “19” mi aveva fatto troppo ben sperare, evidentemente.
Tuttavia non tutte le tredici tracce di cui si compone l’album** sono da scartare. Vi è una triade, in particolare, che merita dell’attenzione. Mi riferisco alle consecutive Lovesong (cover dei Cure), Someone like you e If it hadn’t been for love (cover dei meno conosciuti Steeldrivers). Evito volutamente il singolo di punta dell’album (“Rolling in the deep”) che, sebbene accompagnato da un delizioso videoclip, durante l’ascolto mi ha lasciata più perplessa che mai (troppo Duffy; così come altre mi sembravano troppo à la Winehouse, mentre Adele Laurie Blue Adkins non è né una né l’altra).
La triade sopracitata, dicevo, sembra fortunatamente restituirmi la Adele-non-ancora-ventenne del primo album.
- La cover di “Lovesong” non stravolge troppo l’originale, semmai la rallenta giusto un pelo. L’originale di Robert Smith è di indubbio pregio, tant’è che molti fan della vecchia guardia potrebbero considerare oltraggioso il fatto che sia stata coverizzata (non li biasimo: io stessa approccio sempre con scetticismo le cover delle canzoni che amo). Ciononostante ritengo che l’interpretazione di Adele sia comunque molto meritevole: la cosa che mi piace di più, in tutto ciò, è che la sua voce risulta talmente credibile da poter fare tranquillamente le veci di quella di Smith. Usando una delle similitudini più ardite (leggi: cretine) della mia vita… avete presente quei libri per ragazzine che se letti in un verso raccontano “La storia secondo lei” e se letti nell’altro, dopo aver girato il libro, rivelano “La storia secondo lui”? Beh, la cover di Adele mi ha fatto pensare a “Lovesong” come ad un testo doubleface di cui ora conosciamo e il modo in cui ne parlerebbe un innamorato e quello in cui lo farebbe un’innamorata.
- “Somebody like you” nelle intenzioni dell’autrice dovrebbe essere la canzone-sintesi dell’intero album: la spinta creativa del tutto sembra infatti essere stata la rottura con il suo ultimo ragazzo (a tal proposito Adele ha dichiarato che proprio nei momenti di maggiore difficoltà emotiva la sua vena creativa riprende a pulsare; paradossalmente, osserva lei stessa, cercare di procacciarsi solo relazioni fallimentari potrebbe divenire quasi una scelta di vita per garantirsi una carriera duratura). Nel testo, Adele si immagina di rincontrare in età adulta questo suo ex ragazzo, scoprendolo però ora felicemente sposato. Non c’è rancore, né frustrazione. Semmai a farla da padrona è la confusione tipica della fine di una relazione, quando ci si accorge che l’altro è riuscito a passare oltre, mentre a noi -nonostante sia passato del tempo- risulta troppo doloroso anche solo pensare di provarci (ma l’affetto è ancora tale per cui l’unica cosa che si può fare è augurare ogni bene all’altra persona, sperando solo che non getti nel dimenticatoio i ricordi dei momenti passati insieme). Il pezzo centuplica la sua efficacia se eseguito dal vivo: i Brit Awards di quest’anno ne danno una testimonianza ottima; l’impeccabile esibizione di Adele ha conquistato ogni cuoricino spezzato presente in sala. A me ricorda in qualche modo il candore di “Hometown glory” e, sebbene vada un pelo oltre il livello di romanticume da me tollerato, dopo ripetuti ascoltimi ha fatta convinta. Parte della magia immagino sia da ricondurre alla linea di piano che segue il bel canto della giovane londinese.

- Ma forse il mio pezzo preferito, all’interno di questa triade, è “If it hadn’t been for love”, dove Adele finalmente dismette i panni della ragazza fragile cui la vita non gliene ha mandata una giusta per decidere di irruvidire la voce (ricordando ai più nostalgici una giovane Wanda Jackson) e iniziare a parlare di autostop, natura nemica, delitti passionali e gelide prigioni. Proprio un bel quadretto, già. Si tratta ancora una volta di una cover, ancora una volta ben interpretata da Adele che mostra di saperci fare anche col Bluegrass. È un vero peccato che l’album non si concluda qui, ma prosegua con un’ultima altra traccia, “Hiding my heart” (cover di un brano di Brandi Carlile senza arte né parte). Gli artigli sfoderati poc’anzi si ritraggono e torniamo a sentire in lontananza il rumore di cuori un tempo pulsanti di vita, ora distrutti. Umpf.
Purtroppo quelle di cui sopra sono solo 3 canzoni su 13 (nella versione standard del disco 2 su 11) e, a voler girare il dito nella piaga, 1 inedito contro 2 cover. Per dirla alla Barney Panofsky, cazzo cazzo e cazzo.
Ciò mi preoccupa assai, soprattutto perché questa ragazza potrebbe veramente fare di più di così. Mi avvilisce veder dilapidato tanto talento per delle canzonette che sarebbe un eufemismo definire insipide. Ma non voglio scoraggiarmi: continuerò a fare il tifo per Adele, nella speranza che prima o dopo sforni anche lei il suo White Album. Forza classe 1988, keep the dream alive!

Ps: guardatevi quest'esibizione e capirete perché insisto tanto.


*si pronuncia /ʌˈdɛl/
** mi sto riferendo alla limited edition di “21”, dove “If it hadn’t been for love” e “Hiding my heart” compaiono come bonus tracks.

lunedì 21 marzo 2011

Se non ora quando #150

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Negli ultimi giorni di festività Torino è stata piena di pioggia. Come accade spesso da queste parti, appena la festa ha voltato l'angolo la pioggia ha smesso di cadere regalandoci persino il sole. Ciò che mi resterà nel cuore della serata del 16, chiamata dalle autorità notte tricolore, per cui le strade del centro sono state intasate da una massa enorme di gente di vario tipo dal volto comunque super-felice, sarà soprattutto quel ragazzo che vende gingilli davanti a Palazzo Nuovo, riconvertito per l'occasione in venditore di tricolori, come del resto tutti i suoi colleghi del centro, paradossi che camminano ma alla fine neanche più di tanto. Ha preso più pioggia in testa lui di tutti quelli che si sono accalcati davanti al palco di Piazza Vittorio messi insieme. Si è preso anche le male parole della gente stronza e della gente in-felice a cui cercava di rifilare una bandiera del loro paese - senza fare una piega.
Per coloro che hanno avuto la fortuna di non assistere alla diretta su raiuno con baudo e vespa ad un certo punto della serata è stata accesa di un triplo neon tricolore la Mole Antonelliana, generando un boato notevole - lo dico io che c'ero - da parte di tutti coloro che stavano lì sotto, con gli ombrelli inclinati, ad aspettare quel momento. Vedere la diretta di un evento pubblico torinese su raiuno dopo essere tornati dalla calca piovosa del centro storico significa scrollarsi di dosso l'acqua ormai infiltratasi ovunque e poi ammettere che si vede molto meglio in televisione, affermazione che precede generalmente lo spegnimento dell'arnese. Anche perchè se uno vede un evento simile presentato da quei due non è che ne possa fare a meno, di disprezzare tutto l'insieme. Perché la festa fosse coerente doveva esserci una nota di sdegno. Di qui l'affezione tipica della nostra comune nazionalità, per cui uno è patriota se dice di sognare un'Italia migliore, mentre gli altri hanno optato per non sognare niente. A parte l'espatrio, ovviamente.
In questa città non ci sono mai stati dubbi sul fare la festa o meno. Gli animi erano pervasi da uno spirito di Se Non Ora Quando, nel senso che si possono avanzare dubbi su quanto il paese sia degno di festeggiamenti - vd. dibattiti televisivi antirisorgimentalisti versus storici cazzuti - come del resto se ne possono avanzare su qualsiasi cosa, ma alla fine nessuno è proprio sicuro che ci sarà, al bicentenario. Immagino che ci sia un sacco di gente pentita di non aver mai festeggiato le nozze di carta, ecco. Nelle ultime due settimane persino la riottosa via Po è stata riverniciata di fresco. Sembra un'inezia, intanto certe cose aiutano a sentire la festa. Ho avvistato tra tanta gente qualcuno che conoscevo e non vedevo da anni - ma senza salutare nessuno - davanti ai negozi chiusi moltissime bancarelle e i bar storici - uno su tutti, Fiorio - rigorosamente aperti. Nel tentativo di ripararmi dalla pioggia ho anche scoperto una bella libreria, aperta fino a sera tardi.
Avanzando a spallate tra la gente si trova un ambiente adatto a riflessioni su quanto le patrie esistano al di fuori dell'anima del singolo. Le conclusioni a cui si giunge possono essere influenzate da quello che ti capita sul momento, se uno ti pesta i piedi o se una signora con gli occhiali si abbassa per aiutarti a recuperare l'ombrello. Ma anche se finisci in una pozzanghera e non hai che te stesso da biasimare.
 
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